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Pietro Senaldi e il messaggio politico di Gabriele Albertini: "Giusta la federazione tra Lega e Forza Italia"

Gabriele Albertini

Pietro Senaldi
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«Come tutti i pensionati benestanti, resto a Milano quando gli altri vanno in ferie e andrò in vacanza a settembre, a Merano, per tornare giusto il 3 ottobre per votare». Il candidato mancato osserva la sua città deserta dalla casa -ufficio ai piedi dei grattacieli di City -life. Si limita a qualche puntata sul Lago Maggiore, dove vive la sorella novantenne e dove Gabriele Albertini sta tentato l'avventura da immobiliarista. Ha comprato da un'antica fidanzata, la figlia del farmacista di Portovaltravaglia, tra Laveno e Luino, alto Benaco lombardo, un palazzo del Seicento. Ne ricaverà dodici appartamenti. Della contesa milanese resterà solo spettatore, come concordato con il centrodestra dopo il tramonto del binomio che lo avrebbe visto vicesindaco «in un ticket all'americana, con Racca, Farinet, de Montigny, Bernardo, perché tutti mi volevano». Poi Maurizio Lupi, candidato in pectore di Berlusconi che Salvini però non voleva, venne a sapere della battuta dell'ex sindaco, che lo definiva «un chierichetto affarista» e tutto «andò in vacca». L'incidente di Lupi è un pretesto. In realtà Albertini aveva nasato l'aria. «Ho avuto la sensazione che solo Salvini nel centrodestra ritenesse Milano contendibile, mentre gli altri alleati giocassero la partita meneghina in chiave romana, complicando la vita in città al leader della Lega per poi intestargli l'eventuale sconfitta» spiega quello che per i milanesi è an corail sindaco: «La Meloni mi telefonò solo all'ultimo, dopo aver redarguito De Corato che si era speso pubblicamente in mio favore, e per convincere Berlusconi su di me dovette intervenire la Ronzulli. Silvio e Giorgia decisero di appoggiarmi solo quando capirono che sarebbe stato un autogol per loro non farlo».

Qual è l'eredità della telenovela della sua mancata candidatura, sindaco?

«L'orazione funebre da vivo, con tutta la città che ti chiede di tornare, per un settantenne come me è meglio di un orgasmo».

Appagato il suo narcisismo, però, ha lasciato il centrodestra in mutande...

«È servito. Ora mi sembrano tutti compatti nel sostenere Bernardo».

È pronto a collaborare con lui, in caso di vittoria?

«Ci sentiamo, mi ha chiesto di fare il suo capolista, ma non mi interessa diventare consigliere comunale, e neppure assessore. Da imprenditore e manager però, mi rendo disponibile per incarichi pubblici in aziende comunali o in partecipate. Penso di avere esperienza...».

 

Salvini permettendo...

«Bernardo è un candidato civico, sostenuto dal centrodestra ma sopra i partiti, si fa forte della sua esperienza professionale di grande medico. A differenza di Sala, che mi sembra inseguire il Pd, fino a tradire la sua vocazione originaria di manager. Sposa le battaglie ideologiche dei dem e cerca di nascondere di essere stato il direttore generale della Moratti».

Cosa consiglierebbe a Bernardo?

«Di puntare sulla sua storia, sul suo passato di professionista, di medico che ha curato Milano. Sganciarsi dai partiti e sottolineare il proprio profilo civico, di eccellenza al servizio della città».

Quanto la convince come candidato?

«È motivato a fare bene, spontaneo, si ispira a una leadership valoriale».

E Sala invece?

«Quando l'ho conosciuto io non faceva così il comunista. Ora dà troppa importanza alla sinistra dei partiti, quella non milanese, si fa condizionare, ha perso il proprio profilo cittadino, si occupa di cose che interessano poco la gente. E poi con queste piste ciclabili...».

 

 

 

Ne fa un'ossessione?

«Se vuoi fare qualcosa per la mobilità cittadina e le biciclette, togli il pavé da tutte le vie tranne quelle pedonali. La gente ci si ammazza».

Torniamo a Salvini: ve ne dicevate di tutti i colori e adesso siete pappa e ciccia. Chi sbagliava?

«La mia ricucitura dei rapporti con Matteo è un altro portato positivo della telenovela della mia candidatura. Umanamente mi è sempre stato simpatico, fin da quando era mio consigliere comunale, mi invitava a Radio Padania e giocava, un po' come oggi, a fare l'opposizione interna, andando nei quartieri a impossessarsi del dissenso, o a tenere allegra la gente, come dicevo io prendendolo in giro».

Cosa è cambiato?

«Ero convinto che il consenso di Salvini si sarebbe sgonfiato perché il suo populismo ostentato lo avrebbe allontanato dall'imprenditoria, dai professionisti e dai lavoratori autonomi del Nord che sono l'elettorato principale della Lega. Ora però penso che la sua conversione al governo Draghi sia sincera. Anche la sua offerta di candidarmi rientra nel suo nuovo modo di intendere la politica. Matteo ha capito, anche in proiezione delle elezioni politiche del 2023, che il consenso lo si prende sui disagi e sulla paura ma che per governare servono un progetto e il confronto con la realtà».

Immagino dalle sue parole che lei sia favorevole al progetto federativo tra Lega e Forza Italia?

«Sì. La federazione aiuta l'evoluzione governativa della Lega, rende spendibile il consenso in azione di governo. Altrimenti si finisce come Pajetta, che quando annunciò a Togliatti la conquista della prefettura di Milano si sentì rispondere: e ora cosa ce ne facciamo, compagno?».

Non tutti i leghisti vogliono la federazione e molti forzisti sono resistenti, se non contrari...

«Berlusconi la vuole, Giorgetti e i governatori pure, Matteo deve convincersi. Silvio può regalare alla federazione una visione di governo, mettendoci dentro la sua storia liberale e la sua appartenenza al Ppe».

Si dice che la federazione sia un escamotage di Salvini per scongiurare il sorpasso della Meloni...

«C'è più della tattica politica. L'operazione è di lungo termine e ampio respiro». L'ha sorpresa il boom di Fdi? «Non mi aspettavo una crescita di queste dimensioni, ma mi sono abituato a pensare al consenso come a qualcosa di volatile».

Non ha risposto del tutto sulla Meloni...

«Giorgia è brava, studia...». Però... «Se devo immaginarmi uno statista, penso a qualcuno di più strutturato. Che so, Bismarck, Cavour».

Fa il gioco della sinistra, che accusa la destra di neofascismo, polemica che peraltro ha investito anche il candidato sindaco di Milano, Bernardo...

«L'antifascismo è argomento ritrito. Bernardo ha fatto bene a chiedere una condanna contestuale del comunismo. Siamo all'assurdo: Sala può girare con la maglietta di Che Guevara, che se fosse vivo, oggi i cubani lincerebbero, e nessuno gli dice nulla. Bernardo non esibisce simboli del Ventennio, ha un nonno partigiano e deve dichiararsi antifascista. E poi, la situazione a inizio anni Venti era tale che, se non fosse arrivato il fascismo, avremmo avuto una rivoluzione bolscevica e le cose non sarebbero andate molto diversamente».

Cosa sta facendo, a parte il pensionato e lo spettatore di lusso?

«Un libro, "Rivoglio la mia Milano. Il sindaco si rimette i pantaloni"».

Il discorso finisce sempre lì...

«Milano deve recuperare la visione imprenditoriale, di città del fare. È la caratteristica che la rende unica: il milanese, anche se arriva da fuori, è o diventa tale quando capisce che la qualità della sua vita è fatta di cose realizzate».

Qual è il segreto?

«Imprenditorialità, legalità, attualizzazione. Milano è una serra di conoscenze da fertilizzare. Non esiste che ti lasci scappare le Olimpiadi per paura dei pm».

Lei però dei giudici non si fida troppo, se ha firmato il referendum di Salvini e dei radicali...

«Silvio fu estromesso dal Parlamento con una sentenza retroattiva da una corte balneare. Un'ingiustizia che grida vendetta».

Il referendum della Lega è giudicato un atto ostile dall'Associazione Nazionale Magistrati...

«La legge in vigore sui provvedimenti disciplinari a carico dei magistrati stabilisce che nessuna toga può essere punita per come ha valutato le prove o interpretato la legge. Si attribuisce ai giudici una presunzione d'infallibilità e insindacabilità che le organizzazioni umane hanno riconosciuto al solo Papa. Non può essere che un funzionario dello Stato venga riconosciuto onnipotente per il solo merito di aver vinto un concorso pubblico».

Intende fare della giustizia un suo cavallo di battaglia?

«Da sempre. In Senato raccolsi 184 firme di colleghi di tutti i partiti, più della maggioranza assoluta, per introdurre il principio della tutela dall'ingiusta imputazione, che prevede un risarcimento delle spese legali sostenute e dei danni morali patiti a chi viene assolto dopo un'odissea giudiziaria. Oggi la sola imputazione costituisce già una condanna pecuniaria pesante».

Poi non se ne è fatto nulla...

«Costa e Calliendo hanno ripreso l'argomento nella legislatura successiva, riuscendo a inserire un simbolico risarcimento fino a 10.500 euro per le spese legali sostenute. Non è poco, se si pensa che ogni anno ci sono novantamila persone perseguitate dalla giustizia che vengono dichiarate innocenti».

 

 

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