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Mario Draghi, Pietro Senaldi: "Ecco perché il premier rischia la faccia e la pelle"

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Pietro Senaldi
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Chi ben comincia è a metà dell'opera. E sono (quasi) tutti d'accordo che, come premier, Mario Draghi abbia cominciato piuttosto bene, agevolato anche dal fatto che fare peggio del suo predecessore, Giuseppe Conte, era impresa ardua. I vaccini, dopo un primo disorientamento, sono stati fatti a passo di carica grazie al generale Figliuolo e l'Europa si è spellata le mani approvando il piano dell'ex governatore della Bce sull'utilizzo da parte dell'Italia dei soldi che Bruxelles le presta per rialzarsi. La credibilità internazionale del Paese poi ha fatto tre balzi in avanti, tanto che a leggere certe cronache pare che il nostro presidente del Consiglio sia l'uomo più importante del Continente. Ottimo e abbondante. Gli incubi giallorossi sono dimenticati, anche se quel dispettoso buontempone del sottosegretario alla presidenza, Bruno Tabacci, ha riesumato il terribile Arcuri per affidargli un compito milionario di consulenza e controllo sul procedere degli investimenti pubblici. Il problema però è che, anche se il premier ha impostato bene la traiettoria di guida, la curva non è stata ancora superata e ci sono tanti sassolini sul selciato che possono pregiudicare la marcia. Draghi ha mostrato di non temere i partiti. Sculaccia i vari leader a turno e ha il piglio di chi procede imperturbabile e sicuro, come esibito nella conferenza stampa di una settimana fa dove ha illustrato il passaporto sanitario. SuperMario ha grandi doti politiche, ma la situazione è molto complessa e l'uomo rischia di restare impigliato in una palude che può fargli anche rimediare una figuraccia, se non interverrà per tempo con fermezza; o la va, o la spacca. Tanti sono i nodi, poco il tempo, osi taglia con la forbice o niente; a dipanarli a uno a uno non ce la si fa, gli interlocutori sono troppi.

 

 

 

O la va o la spacca

Primo, il ritorno del Covid, il terrore di Palazzo Chigi, perché SuperMario, a differenza di Conte, non può chiudere. I soldi mancano e quelli che ci dà la Ue non sono per i sussidi ma per lavorare e vivere, ossia creare economia. I punti fondamentali sono due: scuola e lavoro. Quanto alla prima, rispetto al disastro dello scorso anno sembrano mancare solo i banchi a rotelle. Si rischia la ripresa dell'anno con didattica a distanza. Il governatore campano De Luca l'ha già annunciata, malgrado i dati Invalsi ci dicano che un anno e mezzo di scuola da casa ha devastato i ragazzi; un liceale su due oggi ne sa quanto uno studente delle medie. I prof non si vogliono vaccinare e il governo non ha ancora deciso se imporglielo. Vorrebbe, ma teme la rivolta. Domani potrebbe arrivare la decisione, e da lì, in ogni caso, saranno guai. Stesso discorso per le imprese, che sognano di lasciare a casa i dipendenti non immunizzati, ma il governo non fornisce copertura politica; e d'altronde, sarebbe quasi impossibile riuscirci. Intanto però, con la variante Delta cinque volte più contagiosa del virus originario, il rischio di paralizzare migliaia di classi e di aziende a settembre è reale. Come fa Draghi però a imporre il vaccino a professori e lavoratori se non lo impone a tutti? E come può prescriverlo a tutti se nel suo stesso governo c'è chi è fermamente contrario perfino al green pass, il passaporto sanitario? Il premier vorrebbe estenderlo a mezzi di trasporto, supermercati, ogni luogo d'assembramento, ma ogni tre giorni c'è chi scende in piazza a protestare, incurante del fatto che i contagi raddoppiano ogni settimana, soprattutto tra i giovani, ovverosia la popolazione non immunizzata.

Tentennare non si può

Sembrava fatta sulla giustizia, la riforma alla quale l'Europa subordina il prestito di decine di miliardi. La legge non era un granché, come riconosciuto dal suo stesso estensore, la ministra Cartabia, che l'ha definita «di compromesso», e si è inventata l'improcedibilità per ghigliottinare i processi pur mantenendo la prescrizione. Per non far dispiacere a Bonafede, si estingue il giudizio e non il reato. L'arguzia giuridica non è servita tuttavia per far digerire la norma a Conte, e il compromesso dovrà essere ancora più al ribasso. Sempre meglio però la riforma della giustizia di quella del fisco, annunciata ma in merito alla quale è già stata gettata la spugna. A questo giro, non se ne farà nulla: ha probabilità d'approvazione di gran lunga inferiori a quelle della legge Zan. Poi c'è la rivoluzione verde, che ci chiede l'Europa e sulla quale i due antipodi al governo, il leghista Giorgetti e il tecnico d'area grillina Cingolani, hanno trovato l'intesa: fatta così, distrugge l'economia occidentale in generale e quella italiana in particolare. Pronto Bruxelles? Draghi non si è espresso sulle osservazioni dei suoi due ministri forse più autorevoli e non pare intenzionato a citofonare in Europa per porre il problema. Siamo a un bivio. Qui Draghi, intenso anche come personificazione dell'Italia, si gioca la pelle e la faccia. Se sbaglia è un figuraccia, ma sarebbe il minore dei mali. Tentennare non è consentito. 

 

 

 

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