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Non sono i giovani ad aver bisogno dell'Italia, ma l'Italia dei giovani: l'intervento di Andrea Pasini

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L’Italia non è un paese per giovani. Ormai abbiamo perso il conto di tutte le volte in cui abbiamo ripetuto questa frase. Il problema però è che, continuando a dirlo, i nostri giovani hanno iniziato a credere che la situazione in cui ci troviamo non possa più cambiare, che l’Italia sia destinata a essere per sempre un paese per vecchi. Secondo il rapporto stilato dalla Fondazione Migrantes (Rapporto italiani nel mondo 2020) il numero di giovani che lasciano il paese per andare a vivere e lavorare all’estero è in continuo aumento. Nel solo 2019 hanno registrato la loro residenza fuori dei confini nazionali, per solo espatrio, 130.936 connazionali (+2.353 persone rispetto all'anno precedente).
 
Nel 2006, il numeri di italiani iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) era di poco superiore ai 3 milioni. Oggi se ne contano quasi 5.5 milioni. In 15 anni, hanno deciso di lasciare l’Italia il +76.6% di persone in più.
 
Gli studi condotti da SWG ci aiutano a capire il perché di questo esodo. Secondo una ricerca del 2019, il 55% dei ragazzi con meno di 25 anni reputa di avere uno status socio-economico peggiore di quello dei propri genitori. Ancora più grave, il 26% dei giovani italiani si ritiene deluso dalla situazione del Paese e il 19% si definisce addirittura arrabbiato. Il 53% degli intervistati ammette inoltre di essere totalmente d’accordo con i politici che affermano come sia necessario «pensare prima agli italiani» per risolvere la situazione socio-economica.
 
Ad aggravare la situazione, in un’interessante indagine sul profilo degli elettori, i giovani tra i 18 e i 24 anni d’età preferiscono l’astensione. I motivi principali per cui gli elettori decidono di non votare sono la mancata rappresentanza politica delle proprie idee (32%), l’idea che il proprio voto non possa portare ad alcun cambiamento (25%) e il disinteresse verso la politica (24%). È interessante notare anche il notevole calo dei consensi nei confronti del Movimento 5 Stelle (5%). Uno studio di Massimo Anelli e Giovanni Peri aveva evidenziato come, tra il 2010 ed il 2014, i giovani italiani che vivevano nei comuni maggiormente colpiti dalla crisi economica avevano scelto di emigrare oppure di provare a votare per il Movimento 5 Stelle che in quel preciso momento storico si presentava al paese come il movimento del cambiamento, il movimento dell’anti politica che avrebbe aperto il parlamento e le istituzioni come una scatoletta di tonno. Una tendenza che si è accentuata nel 2018, quando il Movimento ha raccolto un enorme successo nel Mezzogiorno. Salvo poi dimostrarsi una volta al governo del paese  identico a quella vecchia politica che ha sempre combattuto molte volte anche in modo forte.
Purtroppo per la politica i giovani non sono una priorità stando ai fatti concreti. I giovani e le tematiche che li interessano vengono usati come slogan dalla politica per cercare di raggranellare qualche consenso in più durante le campagne elettorali per poi dimenticarsi totalmente di loro. Di cose da fare ce ne sarebbero moltissime per cercare di garantire un presente migliore e soprattutto un futuro solido e ricco di opportunità nel loro paese alle giovani generazioni.
 
Il continuo e silenzioso esodo di giovani qualificati all’estero, affonda anche le sue radici sugli scarsi investimenti per l’istruzione e la ricerca in Italia.

Secondo i dati Istat, nel 2017 i finanziamenti in Italia per la Ricerca e Sviluppo  sono stati circa 23 miliardi. Il settore privato contribuisce alle spese con quasi i due terzi del totale (63%) di cui le sole imprese contribuiscono per 14,8 miliardi delle spese sostenute, mentre università e istituzioni pubbliche spendono rispettivamente 5,6 e 2,9 miliardi. Di questi investimenti, la distribuzione è concentrata per il 70% nelle regioni del centro-nord lasciando scoperto il centro sud.

Secondo i dati dell’Osservatorio CPI, la spesa pubblica italiana per istruzione rispetto al Pil è stata pari al 3,8% nel 2017 e negli anni successivi non è andata a meglio, percentuali  che collocano l’Italia nelle ultime posizioni in Europa, seguita solamente da Bulgaria, Irlanda e Romania. Se invece si considera la spesa per istruzione in rapporto alla spesa pubblica totale, l’Italia è all’ultimo posto in Europa con solo il 7,9% contro una media europea del 10,2%. Secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione l’Italia ne spende 3,5 in pensioni e per ogni euro in università, ne spende 44 in pensioni.

I dati più preoccupanti riguardano quindi l’istruzione universitaria: se per quella primaria o secondaria le cifre italiane sono in linea più o
meno con la media europea, la percentuale spesa per l’educazione terziaria non è nemmeno la metà della media europea.

È difficile pensare che questi ultimi dati non siano connessi a quelli, altrettanto negativi, del numero di laureati italiani: solamente il 26,9% in Italia contro una media europea del 39,9%. Il 30% degli italiani all’estero ha però una laurea: coloro che decidono di intraprendere un percorso universitario decidono, in un secondo momento, di spostarsi.

Chi se ne va, quindi, non riesce probabilmente a vedere il proprio futuro in un Paese che accetta che oltre il 20% dei propri giovani fra i 15 e i 24 anni non faccia nulla: né studia né lavora.

Numeri a dir poco preoccupanti.

Se da un lato è possibile che le minori risorse impiegate contribuiscano a rendere il sistema universitario italiano poco attraente, è altrettanto probabile che tra le spiegazioni di questa bassa propensione vi siano i rendimenti attesi. Infatti, l’andamento non è quello che parrebbe logico: in un Paese con meno laureati, questi dovrebbero avere un potere di contrattazione maggiore e, di conseguenza, maggiori riconoscimenti salariali.

In Italia gli adulti laureati guadagnano in media solo il 38% in più di coloro che dopo la scuola superiore non hanno proseguito gli studi (la media Ocse è del 55% in più); il tasso di occupazione dei giovani laureati è inferiore rispetto a quello dei loro coetanei con il solo diploma tecnico o professionale (64% rispetto al 68%) e i lavoratori sovra istruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20%: questo non può che provocare un forte senso di frustrazione, spesso accompagnato dalla spinta a cercare nuove destinazioni più gratificanti.

Come ha messo in luce il Sole 24 Ore, la curva delle retribuzioni italiane tende a premiare secondo una funzione anagrafica: lo stipendio si alza in base all’anzianità aziendale, raggiungendo i suoi picchi tra i 55 e i 64 anni, compromettendo ulteriormente il riconoscimento dei lavoratori più giovani.

C’è un ulteriore aspetto da considerare: la scelta dei percorsi di laurea. Ocse sottolinea come gli studenti italiani abbiano una maggiore tendenza a scegliere studi in ambito umanistico, sociale e comunicazione, meno remunerativi di quelli privilegiati in altri Paesi. In particolare, gli introvabili risultano essere i profili di area Stem (science, technology, engineering, maths).

L’esodo dei ricercatori italiani all’estero, comporta un generale impoverimento non solo da un punto di vista culturale, ma anche economico. 

Cosa molto interessante è la valutazione sui costi fiscali dell’emigrazione altamente qualificata. Questa va divisa in un calcolo della spesa in due tipologie: la prima, certa, è relativa alle spesa sostenuta per l’istruzione di chi poi è emigrato. La seconda, ipotetica, è invece costituita dalla perdita di gettito da imposte e contributi sociali che i laureati emigrati avrebbero pagato qualora fossero stati occupati in Italia. La ricerca stima che il costo fiscale complessivo sostenuto dall’Italia per gli oltre 32 mila laureati emigrati nel periodo 2010-2014 ammonta a circa 10 miliardi di Euro.

Negli ultimi anni questa perdita è risultata in continuo aumento, e si attesta sui 14 miliardi nel 2019 come affermato dall’ex Ministro Tria.

Durante la prima fase della pandemia, il dibattito pubblico è stato spesso incentrato sui tagli dei fondi alla sanità, e un discorso analogo vale ora per il settore della ricerca nel periodo in cui il mondo intero è alla caccia del vaccino.

L’esperienza Covid-19 ha sottolineato ancor di più l’importanza, per un Paese, di disporre di proprio capitale umano impegnato nella ricerca. Alcuni di questi cervelli in fuga hanno deciso, proprio in questa situazione di emergenza, di fare dietrofront e tornare nel Belpaese: la sfida per la politica consisterà ora nel riuscire a trattenere chi se ne era andato.
 
Io sono Andrea Pasini un giovane imprenditore di Trezzano Sul Naviglio e credo che il paradosso di questa situazione sia che non sono i giovani ad aver bisogno dell’Italia, ma l’Italia dei giovani. Sempre secondo una ricerca targata SWG, il 56% degli italiani concorda con la seguente affermazione: «Con la loro preparazione le nuove generazioni saranno in grado di migliorare il modo in cui vivono». Inoltre, recenti studi mostrano come innovazione e crescita economica siano maggiori dove più elevata è la presenza dei giovani.
 
Siamo nell’era della digitalizzazione, della globalizzazione. Chi se non i nostri giovani possono accompagnarci in questo fondamentale percorso. Non si tratta di qualcosa che possiamo ignorare. Se vogliamo essere competitivi nel mondo, una volta sconfitta questa terribile pandemia, abbiamo bisogno dei nostri ragazzi. E non parlo di lavori part-time, contratti temporanei e sottopagati. Se vogliamo che i nostri giovani ci conducano verso il futuro dobbiamo abbandonare il concetto della «gig economy», termine coniato dai giovani dell’Ocse per descrivere «un sistema economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, professato da aziende come Uber o Deliveroo».
 
Ci vuole coraggio per cambiare le cose. Ci vuole forza e lungimiranza, ma chi può avere queste doti se non noi? L’Italia è un paese incredibile, che più volte ha dimostrato di sapersi risollevare. Insegniamo ai nostri giovani a lottare per il loro Paese, tocca a noi dare loro la speranza per lottare.

di Andrea Pasini

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