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Pietro Senaldi contro Enrico Letta: è lui la vera tassa e a pagarla è il Pd, le sue sparate costano consensi alla sinistra

 Enrico Letta

Pietro Senaldi
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«Si incontrano tante maschere nella politica, quello di Salvini però è un volto vero, con lui ho un rapporto franco: sappiamo di rappresentare due Italie diverse e contrapposte, ma anche di avere entrambi la responsabilità di aiutare il Paese a uscire da questa crisi e di fare in modo che le riforme che dobbiamo fare funzionino». Enrico Letta cambia parte in commedia. Il leader dei dem, dopo aver speso i primi tre mesi dell'esecutivo Draghi nel tentativo di delegittimare l'alleato leghista, intimandogli più volte di togliere il disturbo, ieri improvvisamente lo ha riconosciuto, elevandolo, o forse sarebbe più corretto dire abbassandolo, a suo pari nel governo e rivale numero uno per quando si dovrà andare a votare. Il cambio di strategia da parte del segretario del Pd era indifferibile. Fallito il tentativo di definire l'identità del proprio partito sulla sola negazione della politica della Lega, Letta ci prova all'inverso, esaltando l'avversario, per godere di luce riflessa nello sfidarlo. Il punto di partenza è lo stesso: la constatazione della forza della Lega e della pochezza del Pd. Si ribalta però lo schema. Poiché tutti gli argomenti avanzati dai dem negli ultimi mesi sono stati bocciati, da Draghi, dalla realtà o dai cittadini, Letta non incalza più il centrodestra sui contenuti, ma attacca il suo leader, per accreditarsi presso l'elettorato come l'unico in grado di sconfiggerlo. La realtà è diversa dalla narrazione del successore di Zingaretti. Salvini ha rivali ben più pericolosi e agguerriti dell'attuale capo dei dem. Enrico però non aveva altre frecce al suo arco da scagliare.

 

 

 

Effetto Supermario

Il governo Draghi ha effetti sorprendenti sui partiti che lo reggono. Renzi lo ha fatto nascere, ma rischia di morirci. I grillini lo hanno subito e ne sono stati devastati internamente, ma non nei consensi. Oggi a ogni stella di M5S corrisponde un mezzo partito, però l'emorragia di elettori si è fermata. La Lega ha fatto un'operazione di medio termine. Ha pagato dazio all'inizio, ma dopo le prime riaperture serie e il successo della profilassi i sondaggi hanno invertito la tendenza. Il Pd era convinto di aver toccato il fondo con Zingaretti, il segretario che portava l'acqua con le orecchie a Conte ed era diventato il punching-ball degli intellettuali e dei capetti rossi. Con l'arroganza e la supponenza che li accompagnano sempre, i dem erano certi che si sarebbero trovati come a casa con il governo dei migliori e si sono affidati al più snob, cattedratico ed europeista che avevano, però è andata male. Letta si è dimostrato immediatamente una iattura, una tassa, una sorta di patrimoniale che sta azzerando le speranze di ricrescita dei progressisti. Il segretario si è disinteressato da subito del governo ed è partito con una lunghissima campagna elettorale, che rischia di logorarlo prima che si arrivi a metà strada. Voto ai minorenni, ius soli, parità di ogni genere, reati d'opinione, tasse sul ceto medio. Letta ha lasciato a Draghi il pallino sull'attività dell'esecutivo, bacchettando Salvini ogni volta che questi ha cercato di interessarsi e influire sul premier. Non occuparsi di quel che fa SuperMario tuttavia significa non occuparsi degli italiani, che hanno percepito l'impalpabilità del Pd nel Palazzo e hanno iniziato a voltargli le spalle.

 

 

 

Un gran chiacchierone

Sette anni dopo essere stato premier, l'Enrico stai sereno è tornato esattamente uguale a quel che era, un gran chiacchierone, maestro d'eloquenza e non privo d'alterigia, ma non un uomo di comando, poco pratico e dalla vaga determinazione. Un professore universitario, in buona sostanza, e non un leader. La sua ultima uscita, a favore dell'introduzione di una tassa di successione per il ceto medio, ha fatto perdere al Pd un punto e mezzo in una settimana precipitandolo, secondo Ipsos di Pagnoncelli, istituto demoscopico solitamente generoso con i dem, al 19,4%, il livello più basso degli ultimi due anni, fatti salvi i giorni della caduta del governo giallorosso. Gli elettori progressisti non si illudano, il fondo non è stato toccato. Il partito scenderà ancora, specie se il segretario continuerà a dire cose di sinistra che non interessano a nessuno ma poi lascerà Draghi governare in modo pragmatico, efficiente e non ideologico, quindi da leader più vicino alla destra, almeno nel fare. D'altronde, quando SuperMario ha convocato a Palazzo Chigi Letta, qualche giorno fa, dopo il goffo tentativo del ministro Orlando di prorogare in maniera occulta il blocco dei licenziamenti, gli ha posto un aut-aut: o con me o con la Cgil. In un secondo il leader Pd si è messo in riga, dando all'elettore di sinistra l'ennesima prova della sua consistenza, più gelatinosa perfino di quella di Zingaretti. Normale che a sinistra inizino a pensare che per battere i tacchi bastano Di Maio e Conte.

 

 

 

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