Enrico Letta, il retroscena di Pietro Senaldi: al bivio, sceglie Mario Draghi o Maurizio Landini?
Nello sforzo di dare un'identità al Pd, Enrico Letta sta perdendo la propria. Europeista, economista, professore in scienza della politica, nipote di tanto berlusconiano, una vita a darsi un profilo da progressista moderato: il leader dei dem era tutto questo, prima di assumere la segreteria del partito. Sono bastati due mesi sul ponte di comando del Nazareno per trasformarlo in una sorta di Frankenstein, un misto tra Landini, Orlando e Visco sull'economia, Luxuria, Boldrini e Di Battista sui temi etici, Fratoianni, Rackete e Lucano sull'immigrazione. Si distingue dal suo predecessore, Zingaretti, solo perché, almeno al momento, non si è fatto abbindolare dalle sardine, malgrado abbia messo i giovani in testa alle sue priorità.
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Letta vuole rifare l'Ulivo, ma ha ben poco a che vedere con Prodi: laddove il professore metteva personalità di peso, a compattare la variegata maggioranza, il professorino butta lì idee balzane. Non sapendo quali contorni dare al Pd, è partito con l'individuare il nemico, così da definirsi per sottrazione. Da tre mesi attacca il leader della Lega, Salvini, sostenendo che non c'entra niente con Draghi. Teorizza che Matteo dovrebbe mollare il governo, anziché insistere con le riaperture, i referendum sulla giustizia, la sfida alla Ue sugli immigrati, la riforma del mercato del lavoro e delle tasse. Gli rimprovera di sabotare il governo dei migliori, che per definizione non può che pendere a sinistra. Poi, tutto d'un colpo, l'Italia anticipa le riaperture, Mattarella sentenzia che la giustizia è morta e va ribaltata, il Guardasigilli Cartabia si appresta a farlo, SuperMario attacca l'Europa diagnosticando che ci sta fregando sui profughi e boccia tutte le proposte economiche dei sedicenti progressisti, a partire da tasse e lavoro. Per la cronaca il premier ignora anche ostinatamente gli appelli della sinistra per l'approvazione della legge Zan, teoricamente anti-omofobia in realtà contro la libertà d'opinione.
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Un santo al Colle - In una settimana, il leader dem è stato costretto a scoprire che il governo calza più al suo rivale leghista che a lui. Solo che non ne trarrà le conseguenze, perché non sa dove andare. La maggioranza ci sarebbe anche senza i dem, che possono sbraitare ma devono restare attaccati al governo; un po' perché altrimenti farebbero la figura degli irresponsabili, e gli manca solo questo, ancora di più perché per loro è indispensabile restare nella stanza dei bottoni per giocare la partita del Quirinale, quella che il Pd non può permettersi di perdere, visto che senza un santo al Colle gli crollerebbe tutto il sistema di potere, l'unica cosa che lo tiene insieme. Il blocco dei licenziamenti è la buccia di banana sul percorso di Letta, il momento della verità. Se i sindacati, come probabile, faranno lo sciopero contro la revoca del divieto, il segretario dem dovrà decidere se stare con Draghi e le imprese, o con la Cgil, e di fatto sfilare contro se stesso. La fine del lockdown ha messo i giallorossi di fronte ai loro limiti, ideologici, pratici, di competenza e di visione. Conte è sparito, i grillini si sono divisi, Letta annaspa travolto dalla corrente della ripartenza cercando di aggrapparsi a ramoscelli deboli. Renzi e Calenda aspettano il cadavere sulla riva del fiume. Quando il gioco si fa duro e si tratta di rimboccarsi le maniche per salvare l'Italia, fatalmente finisce il tempo di chiacchieroni rossi e fannulloni gialli.