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Pietro Senaldi contro Andrea Orlando: "Ecco perché è l'unico ministro da licenziare"

Pietro Senaldi
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Breve ritratto dell'Orlando dannoso, che ha reso furioso Draghi. L'ultima rodomontata del ministro del Lavoro è stata il fallito blitz sul decreto Sostegni. Il mezzo leader piddino, zitto zitto, ha prolungato di due mesi il blocco dei licenziamenti, fino al 28 agosto. Come sperasse che la cosa passasse sotto traccia, è materia da psichiatri; sta di fatto che, non appena si è saputa la notizia, il premier ha fatto carta straccia del provvedimento e dato ordine di riscrivere la legge. Orlando è andato così a posizionarsi dietro la lavagna, con il suo leader Letta, che il presidente del consiglio ha messo in castigo per aver detto di voler introdurre la tassa di successione.

Povero Andrea, questo è il nome di battesimo del dannoso, ha gettato la manina oltre l'ostacolo. Si è fatto infinocchiare da Letta, che straparla ma si guarda bene dal fare, ed è passato all'azione, rimediando una sconfessione che, con governi e partiti di altra statura, sarebbe stata il preludio alle dimissioni. Orlando invece no, resterà. È vaccinato agli schiaffi della storia, basti pensare che si iscrisse diciottenne al Partito Comunista poche settimane prima del crollo del Muro di Berlino. Quale acume politico, quale lungimiranza, direbbero i critici. Invece no, quella cosa lì l'aveva fatta giusta.

 

 

L'attuale ministro del Lavoro sarebbe stato un perfetto funzionario della Ddr, e lo aveva capito bene. Il guaio è che, subito dopo essersi trovato, Andrea si è perso, travolto dalla storia e dal crollo del mondo nel quale avrebbe nuotato come un pesce nell'acquario. Perché in mare aperto no; per quello, a dispetto del cognome epico, gli manca proprio il physique du rôle. Ce lo ricordiamo tutti, nel marzo scorso quando scoppiò la pandemia, tappato per mesi in casa, terrorizzato davanti a una telecamera con l'espressione di io speriamo che me la cavo, assolutamente non in controllo della situazione, sollevato solo dal fatto che del Paese si occupassero Conte e Speranza.

IN POLITICA DA 35 ANNI -  Il nostro fa politica da 35 anni e la sua carriera è la prova della decadenza della casta in generale e dei dem in particolare. Non vincerebbe un congresso neppure se fosse l'unico candidato. Ha il carisma di un lemure e l'eloquio di una tomba. Non porta neppure bene, visto che la sola frase che di lui si ricorda è un appello alla sinistra a favore del governo giallorosso: «Non facciamo il Papeete di Natale». Neanche due mesi, e patatrac. Un'altra curiosità inspiegabile è che, in una nazione di giuristi e legulei di ogni risma e fede, l'Orlando, in questo caso dormiente, abbia ricoperto la carica di Guardasigilli, senza neppure lo straccio di una laurea, non dico in Giurisprudenza, ma neppure in Scienze Politiche o Lettere. Nemmeno i grillini, inventori dell'uno vale l'altro, sono arrivati a tanto. Il sospetto è che l'insipienza giuridica del vicepresidente dem, lo è stato e forse lo è ancora, è impossibile accorgersene, gli sia valsa come perla del curriculum: perché infatti il Pd avrebbe dovuto insediare in via Arenula uno che ci capisce qualcosa e rischia di disturbare gli amici giudici quando invece aveva bello, pronto e scalpitante l'Orlando inoperoso?

 

 

IMPALPABILE - L'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara, nel libro Il sistema, di Alessandro Sallusti, dove denuncia tutte le malefatte delle toghe, tradisce un ricordo nostalgico del Guardasigilli. Era una presenza impalpabile, non un sodale ma certo un lasciapassare ineguagliabile, un non controllore dei giochi di potere che si consumavano sotto il suo mancato controllo ed esercizio. Non c'era neppure bisogno di invitarlo all'Hotel Champagne per quelle notti da bravi in cui toghe e politica decidevano i capi di tribunali e procure in base a interessi di parte. Tutti erano certi che il Guardasigilli avrebbe alzato il calice e brindato a qualsivoglia decisione. Sempre meglio però mantenerlo a braccia conserte, a non occuparsi di diritto, piuttosto che averlo oggi al ministero del Lavoro, dove l'indomito piddino si picca di capire della materia e si industria nell'arte della deindustrializzazione.

 

 

E qui l'Orlando torna dannoso. Distante anni luce dalle teorie economiche del premier e incompatibile con qualsiasi programma di ripresa, il vicepresidente dem si comporta nel governo dei tecnici come un delegato sindacale della Cgil al tavolo della Fiat. Non capisce, disturba, sabota, mette in conto agli altri i propri pasti. Con quell'aria indolente e l'occhio che pare dormiente anche quando è spalancato, l'Andrea è una iattura per l'economia. Basta ricordare che ci ha portato in dote il codice degli appalti, quel groviglio di burocrazia che, per impedire che un topo entri nel barattolo della marmellata, lo sigilla con la fiamma ossidrica, incurante del fatto di affamare tutta la fattoria, contadini e buoi inclusi. E qualcosa di positivo? Ligure di porto, Orlando ha capacità non comune di stare a galla. Quando c'è la tempesta, si rintana in cuccetta aspettando che passi. Altrimenti naviga secondo corrente. Talvolta sbatte contro qualche scoglio, e scopre che sono i suoi piedi; ma per sua fortuna dalle sue parti c'è sempre qualcuno che la fa più grossa di lui, che rapido torna sottovento.

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