Luca Ricolfi, l'affondo: "Covid, così gli elettori di destra sono stati discriminati"
Medici a parte, c'è un uomo in Italia che ha capito il Covid più degli altri, probabilmente anche perché l'ha studiato di più e senza paraocchi ideologici. È Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati nonché presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. L'estate scorsa fu il solo a prevedere, fin da giugno, l'arrivo della seconda ondata. Suggerì la strategia delle tre «T», tamponi, tracciamento e trattamento, sottolineando l'importanza della cura tempestiva da casa. Provò a dire anche, prima dell'avvento di Draghi, che per far ripartire l'Italia bisognerebbe abbassare le tasse anziché vagheggiare di patrimoniale. Parlò di lockdown tempestivi e fortemente localizzati, attaccando Conte, colpevole di intervenire sempre troppo tardi, quando lo esigeva la pressione sugli ospedali, e con provvedimenti generalizzati e non mirati. Oggi che si respira euforia, Libero è andato a disturbarlo, per sapere se non stiamo gettando troppo il cuore oltre l'ostacolo.
Professore, il calo dei contagi è dovuto più al generale Figliuolo o al generale estate?
«Una risposta rigorosa è difficile, ma credo che il peso del generale estate sia un po' maggiore di quello della campagna di vaccinazione. Però per "generale estate" io intendo almeno 3 cose, che sommano i loro effetti: la vita all'aperto, che rende molto più difficile la trasmissione, la temperatura e l'umidità medie, che facilitano la caduta a terra delle goccioline, l'esposizione ai raggi ultravioletti che (attraverso la vitamina D), rafforza il sistema immunitario. Nelle ultime 5 settimane abbiamo assistito a una riduzione spettacolare della mortalità, che ci viene spontaneo attribuire soprattutto al decollo della campagna di vaccinazione. Ma un'analisi fredda, effettuata considerando i tassi di vaccinazione, la composizione per età della popolazione, l'efficacia media delle prime dosi, suggerisce che solo 1/3 della caduta della mortalità sia imputabile alle vaccinazioni: credo che stiamo sottovalutando il ruolo mitigatore del "generale estate"».
Lei è sempre stato molto prudente: stiamo tardando a riaprire, considerato che il Covid è una polmonite e si va verso l'estate?
«No, non stiamo tardando, perché il rischio di una risorgenza dell'epidemia non è affatto scongiurato, specie se la variante indiana dovesse rivelarsi più letale e/o trasmissibile di quella inglese (i casi in Italia sono ormai parecchie migliaia). Però devo ammettere che è la prima volta che il pessimismo di Galli e Crisanti (in particolare il timore di 5-600 morti al giorno per fine maggio) mi è parso eccessivo».
L'anno scorso lei fu quello che con più precisione e tempismo previde la seconda ondata: ravvisa delle analogie?
«Ben poche, e infatti io non cassandreggio più. La differenza fondamentale è che l'estate scorsa non avevamo i vaccini, e quindi le scelte del governo di allora - aprire per rilanciare il turismo - erano evidentemente e platealmente sconsiderate. Oggi la situazione è diversa (i vaccini frenano l'epidemia), però questo non vuol dire che Draghi si stia muovendo con prudenza. Anche le scelte di Draghi, viste con l'occhio dello statistico, sono incaute, sia nel breve periodo (si stanno facendo troppo pochi tamponi) sia, soprattutto, su un orizzonte di tempo più lungo: se continuerà a non fare nulla per la messa in sicurezza di scuole, trasporti e uffici in autunno le cose potrebbero mettersi di nuovo male. Naturalmente, e fortunatamente, non è detto, perché i vaccini potrebbero sbaragliare il virus. Ma la vittoria non è affatto sicura: possiamo sperare, non confidare».
Secondo lei adesso serve portare la mascherina all'aperto?
«Serve pochissimo. Però è meglio fingere che serva».
Perché fingere?
«Per due motivi. Il primo è che, in determinate circostanze, la mascherina serve anche all'aperto: tutto dipende dall'umidità, dalla temperatura, dalle correnti, dalla vicinanza fra le persone e dal tono di voce con cui si parla. Il secondo motivo, ben più importante, è che l'obbligo di mascherina è un fondamentale, insostituibile, segnale di allerta, che permette di mantenere vivo un clima di prudenza che è cruciale per vincere la guerra contro il virus ed evitare di ripiombare nell'incubo».
È a ottobre che capiremo se davvero abbiamo sconfitto il Covid?
«Un po' più in là, secondo me: direi a novembre o dicembre. Il vero test sarà dato dal combinato disposto di più fattori: rientro dalle vacanze, ritorno a scuola, umidità, vita al chiuso, andamento delle rivaccinazioni. Non dimentichiamo che, in autunno, dovremo rivaccinare almeno 30 milioni di persone in pochissimi mesi».
Come ci stiamo preparando?
«Malissimo. Non vedo nessun piano di rivaccinazione. Non vedo nessun investimento sulla sicurezza di scuole e trasporti, come se Draghi in cuor suo pensasse: non facciamo nulla, tanto a combattere il virus basteranno i vaccini. E poi c'è il buco nero dei sequenziamenti, essenziali se si vuol tenere a bada le varianti. Siamo agli ultimi posti nel mondo, e nulla stiamo facendo per recuperare».
Ci sono errori che ripetiamo immancabilmente e dei quali non riusciamo a liberarci?
«Mah, a me l'errore più pervicacemente iterato sembra quello di decidere sempre tutto all'ultimo minuto. Ovvero: quando è troppo tardi per raddrizzare la barca».
Quali sono le pecche dell'Italia nell'affrontare la pandemia?
«Mi c'è voluto un intero libro per descriverle (La notte delle ninfee, La Nave di Teseo). Ma dovessi riassumere in una riga direi: la superbia dei governanti».
La superbia?
«Sì, la superbia. Perché gli errori che si stavano facendo erano evidenti fin dall'inizio, gli studiosi indipendenti li hanno segnalati sempre tempestivamente con lettere aperte, appelli, petizioni, saggi, articoli, ma i governanti e le autorità sanitarie si sono sempre rifiutati di rispondere. Attenzione: non dico dare ragione, o seguire i suggerimenti, ma degnarsi di rispondere qualcosa. È come se, in Italia, vigesse una sorta di diritto alla non risposta, di cui sistematicamente usufruiscono i responsabili delle istituzioni, dal capo del governo fino ai funzionari della pubblica amministrazione».
C'è stato un cambio di passo tra Draghi e Conte nella lotta alla pandemia?
«Sono stato fra i più convinti e severi critici di Conte, e penso che fra Conte e Draghi vi sia un abisso. Tuttavia non posso non notare due cose: la campagna di vaccinazione avrebbe accelerato anche con Conte (forse un po' meno, grazie alla permanenza di Arcuri); e il "rischio ragionato" di Draghi intanto è stato possibile perché la primavera era alle porte. Detto questo, sì: con Draghi le cose vanno meglio, non solo grazie all'attivismo del generale Figliuolo ma anche grazie a una maggiore serietà nella pianificazione delle riaperture».
Il tema Paese è: ora tutti in ferie, si riparte a settembre. È uno dei segnali del declino della nostra società signorile di massa?
«Quando ho pubblicato La società signorile di massa (ottobre 2019) il Covid c'era già ma non ce n'eravamo accorti. A giudicare da come si stanno comportando gli italiani, direi che il Covid non ha insegnato molto, anzi per certi versi ha accentuato i tratti signorili del nostro sistema sociale: che paese è un paese che lascia andare in rovina il mondo del lavoro autonomo pur di tutelare i garantiti, e quando quel medesimo mondo prova a rialzare la testa, non gli permette di farlo perché giovani e meno giovani preferiscono il reddito di cittadinanza piuttosto che lavorare duramente nel settore del turismo e della ristorazione? Eppure è quel che sta succedendo in questi giorni».
Lei è un sociologo: la pandemia come ha cambiato l'Italia?
«Per ora la società, gli stili di vita, i rapporti sociali sono cambiati ben poco, compatibilmente con le regole di distanziamento. È la struttura economica che è profondamente cambiata: la pandemia ha distrutto una parte considerevole della base produttiva del paese, ed è enormemente aumentato il rischio di una nuova crisi finanziaria, Draghi o non Draghi».
E come ha cambiato gli italiani?
«A me sembra che gli italiani siano cambiati pochissimo, e aspettino solo di ricominciare tutto come prima, con qualche modestissima e marginale variazione sul tema: Dad, riunioni a distanza, telemedicina, Amazon. La pandemia ha distrutto le basi della società signorile di massa, ma la gente - abbagliata dai 200 e passa miliardi del Pnrr - non ha la minima intenzione di prenderne atto».
I giovani sono stati le grandi vittime: come sconteranno la pandemia le nuove generazioni?
«Sì, per i giovani - dopo due anni di annacquamento di scuola e università - trovare un lavoro diventerà ancora più difficile. Ma siamo sicuri che lo desiderino tutti, o quasi tutti? Temo che, perché si torni a cercare attivamente lavoro, occorrerà tempo e dovranno cambiare un bel po' di cose».
Per esempio?
«Ovviamente, occorrerà che si formino nuovi posti di lavoro. E occorrerà che lo Stato assistenziale faccia un passo indietro. Senza queste due condizioni quel che ci attende è un processo di impoverimento complessivo, lento ma inesorabile».
La pandemia ha fatto saltare lo schema destra/sinistra?
«No, direi che lo schema destra/sinistra, che era saltato essenzialmente perché Di Maio e Salvini lo avevano fatto saltare alleandosi, è tornato alla ribalta. Alle prossime elezioni avremo un sano scontro fra centro-destra e centro-sinistra, con un po' di fricioletti nel ruolo di disturbatori (Di Battista, Paragone) o nel ruolo di aspiranti ago della bilancia (Calenda, forse Renzi).
C'è stato un razzismo delle chiusure?
«Razzismo no, solo discriminazione. Il governo giallo-rosso ha discriminato la base sociale della destra (il mondo del lavoro autonomo), a favore di quella della sinistra, fatta di pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle medie e grandi imprese, tutelati dai sindacati».
Ci sono settori della società che si porteranno le ferite del Covid nell'anima e nelle tasche a lungo?
«Sì, essenzialmente lavoratori autonomi e dipendenti più o meno precari delle piccole imprese e dei piccoli esercizi commerciali. E poi, forse, una parte dei giovani maschi».
I giovani maschi?
«Sì, il livello di istruzione dei giovani maschi in Italia è drammaticamente basso, e così la loro disponibilità ad accettare lavori umili o poco gratificanti. Quindi, per i meno qualificati, temo che si prospetti un futuro di (modesti) sussidi e lavoretti in nero».
Cosa ci serve per rialzarsi e quanto tempo ci impiegheremo?
«Per rialzarci avremmo dovuto non sperperare 150 miliardi usandoli quasi esclusivamente in sussidi. Il danno fatto dal governo Conte nei mesi cruciali dell'epidemia è così ingente che neppure per super-Mario sarà facile rimediare completamente. Temo che, per tornare ai livelli di Pil del 2007, dovremo aspettare almeno fino al 2027: un ventennio perduto».
I partiti come escono dalla pandemia?
«Divisi su una dicotomia demenziale, quella fra aperturisti e chiusuristi. Ma pronti, non appena l'epidemia si spegnerà, a tornare a dividersi sulle solite cose».
In una classifica delle reazioni alla pandemia dei diversi Stati, dove colloca l'Italia e perché?
«Se ci limitiamo alle società avanzate (le uniche per cui si hanno statistiche ragionevolmente confrontabili), direi che l'Italia contende al Belgio la maglia nera della peggior gestione del Covid. La ragione? Il numero dei morti per abitante, che è l'unico parametro solido per giudicare come sono andate le cose».