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Italiani trattati più da sudditi che da cittadini: se solo si avesse una corretta tutela degli interessi pubblici

Fernanda Fraioli
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Verrebbe quasi da dire: “il giudice contabile questo sconosciuto!”. Eppure, ha una funzione non meno importante di quella svolta dai suoi colleghi della magistratura ordinaria (civile e penale) e amministrativa (Tar e Consiglio di Stato). È forse la sua visibilità dovuta alla collocazione nell’ordinamento giuridico a giocare un ruolo che non le rende quel giusto riconoscimento che merita. Ma forse è che, come collettività, siamo meno propensi a ritenere che qualche organo, in via istituzionale, possa esistere proprio per tutelare i nostri interessi comuni. Qualcuno, forse, lo sconosce proprio. Se, infatti, siamo ben edotti e pronti ad agire contro la condomina del piano di sopra che, annaffiando i suoi gerani ci macchia le lenzuola candide di bucato o ad adire le vie penali, a seguito di un pugno che ci ha compromesso il setto nasale, o ancora ad impugnare l’esclusione da un concorso, non altrettanto lo siamo con riferimento all’interesse che ci accomuna come componenti della collettività.


Leggendo, anche con cura, notizie che attirano la nostra attenzione perché contrassegnate dall’utilizzo di danari pubblici, tanto più nell’attuale contingenza del Recovery Fund, abbiamo poca percezione del diritto che, come cittadini, è a noi intestato di chiedere conto di una loro corretta gestione, nonché di eventuali sprechi. Non sono ancora storia, ma cronaca, notizie in merito a mascherine inservibili allo scopo, siringhe non appropriate tecnicamente, piuttosto che banchi a rotelle accatastati nei sottoscala delle scuole di ogni ordine e grado. Eppure, in disparte lo stupore e, in qualche caso, gli improperi folcloristici che ci portano a recitare affermazioni popolari che appartengono al nostro slang prettamente italico, ci sentiamo trattati più da sudditi che da cittadini di fronte ad un uso, a dir poco negligente, delle risorse che la comunità europea ha messo a disposizione, formalmente dello Stato italiano, ma sostanzialmente di ognuno di noi. Tutti speriamo in una ripresa economica del nostro Paese con queste risorse, soprattutto per quelle categorie professionali che sono state falcidiate dalla pandemia, ma poco consideriamo che ciò è possibile soltanto con un loro uso corretto.


E, è bene dirlo, un uso corretto passa attraverso un eliminabile triade fatta di norme chiare in merito al fine da raggiungere e alle procedure da seguire; ai controlli da effettuare; alla responsabilità dei cattivi gestori. Ciò dicendo, il pensiero corre veloce a reati gravissimi, quali la corruzione ed altri che presuppongono il dolo, cioè la volontà cosciente di commettere un illecito. Ma v’è dell’altro. Qualcosa di più subdolo e meno immediatamente percepibile esiste, purtuttavia, facilmente arginabile se solo si ponesse mente alla possibilità di far valere il proprio diritto di cittadini che hanno delegato gli organi istituzionalmente preposti a gestire le risorse intestateci. È la colpa grave, ovvero quella superficialità, negligenza ed incuria con cui si spendono i danari pubblici, come se non fossero propri, con la consapevolezza che nessuno mai eserciterà questo diritto, né collettivamente, né singolarmente. Ad oggi ancora non è così, ma il Recovery Fund, ed ancor prima il Decreto Semplificazioni, con le proprie norme limita fortemente l’esercizio di questo diritto forse per una malintesa finalità di tutela dei funzionari preposti alla firma dei provvedimenti dai quali scaturiscono forniture di beni e servizi alla collettività. Ma anche per una malintesa funzione punitiva della magistratura contabile preposta ai relativi controlli. Se una funzione repressiva dei comportamenti illeciti non si può negare, essendole riconosciuta addirittura dalla Costituzione, altrettanto vero è che i controlli sull’operato della Pubblica Amministrazione non necessariamente devono sfociare in provvedimenti sanzionatori e massimamente penalizzanti.


Come, peraltro, mai hanno fatto. Se si avesse una corretta e precisa contezza della funzione di tutela degli interessi pubblici – che inevitabilmente, significa di tutti indistintamente – che la Corte dei conti svolge silenziosamente nelle proprie aule giudiziarie, si percepirebbe la funzione di tutela di chi deve fruire di un posto letto in ospedale;  di un posto di lavoro il più stabile possibile; di una scuola funzionante al meglio per formare i cittadini di domani; per consentire alle donne di conciliare il ruolo privato, di mamma, e pubblico, di lavoratrici.
Solo per citarne alcuni. I controlli e la possibilità di intervenire ad arginare quella colpa grave, così subdola anche per il gestore più corretto e dedito al proprio lavoro, andrebbero rivalutati, finché si è in tempo, quale sostegno all’operato di quanti dovranno farne buon uso per soddisfare i bisogni collettivi. Il timore è che il legislatore – persuaso del vantaggio di una loro assenza in termini di rapidità ed efficienza – non abbia adeguatamente ponderato l’effetto devastante che sicuramente deriverà dall’eliminazione di quegli strumenti che la collettività ha per esercitare il proprio diritto ad avere beni e servizi e per controllare se tanto è stato fatto o meno.

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