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Pietro Senaldi affonda Enrico Letta: "Pd scollato dalla realtà? Finalmente dice una cosa giusta"

Pietro Senaldi
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Gli occhiali di Enrico Letta sono del tutto privi di lenti bifocali. Gli consentono una visione limpida del proprio partito, ma non gli permettono di mettere a fuoco le proprie responsabilità nel disastro del Pd. Forse è una fortuna per il neosegretario, che se intuisse di aver staccato lui il respiratore al paziente in rianimazione che gli è stato affidato, probabilmente telefonerebbe a Renzi per chiedergli di sostituirlo e regalargli nuova serenità. È un destino infausto quello di Enrico stai messo male. L’uomo non è carismatico, ha poca forza politica propria e ogni cosa che dice proferisce due banalità e una fesseria; però ha studiato, ha fama di saggio e ha relazioni che contano.

Per questo quando la nave imbarca, lo chiamano in soccorso, e inevitabilmente essa affonda. Quando nel 2013 il Pd riuscì a perdere l'ennesima elezione già vinta e Bersani incassò un due di picche dai grillini, Letta ascese a Palazzo Chigi. Europeista, atlantista, immanicato, allestì una squadra di ministri di cui si ricordano solo la Idem e la Kyenge e varò il governo più debole dalla fine della Prima Repubblica. Renzi lo mandò a casa e quattro mesi dopo portò il Pd al 41%.

A questo giro l'amaro Enrico ha preso in mano i dem devastati dalla gestione Zingaretti, logorato dal governo con M5S e dall'incapacità da una parte di trovare la quadra con i grillini e dall'altra di instaurare un dialogo con Renzi e Calenda, la parte moderata della sinistra. Il vice Montalbano voleva rifare l'Ulivo, ma è rimasto con solo il suo ramoscello in mano. Ha lasciato il Pd intorno al 19%. Il suo addio ha confortato l'elettorato e sospinto il partito oltre il 20. Ma poi è stato sufficiente che la base dem ascoltasse due o tre volte il nuovo leader perché la prima forza della sinistra scivolasse al 16,9, superata da M5S e Fdi. In questo scenario si è svolta ieri la direzione del partito, illuminata dalle parole del segretario: «Nel 2016 non c'ero» ha esordito il leader, specializzato nel non assumersi le responsabilità e puntare l'indice altrove, «ho seguito da fuori questa sconfitta pesante a Roma, Torino e Napoli, che è stata l'inizio del nostro scollamento di connessione sentimentale dal Paese, che poi ha portato alla sconfitta del 2018».

 

 

 

 

 Gira e rigira, il problema è sempre lo stesso nel Pd: chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo, chi ci vota? La direzione di ieri è stata l'ennesima spesa nella ricerca dell'identità perduta; non però nel 2016, ma nel 1989, quando crollò il comunismo, e nel 1992, quando morì la Dc. I reduci delle due chiese politiche, fondendosi, hanno dato vita a un Frankenstein che ancora non conosce il suo corpo e non ha capito qual è la sua faccia. Ora tocca a Letta trovare la sintesi. Era partito sul sentiero di Zingaretti, inseguendo i grillini e sperando di affiliarli, per governare un domani con i loro voti. Poi i grillini si sono sbriciolati e ora il Pd non ha nessuno con cui allearsi, anche perché, da che M5S non ha capi e parla meno, è salito nei sondaggi, premiato dalla propria invisibilità. Viceversa i dem sono sovraesposti e fatalmente scendono perché, essendo sconnessi con il Paese, come dice il loro capo, più gente li ascolta, meno gente li vota.

Il reperimento dell'identità mai avuta, tornata di moda ieri, è poi l'ennesima bugia; non è come ai tempi di Veltroni e della vocazione maggioritaria, la ricerca di sé che Letta ha avviato è dovuta al fatto che nessun vuol più fidanzarsi con il Pd. Non Renzi, non M5S, non Calenda, non la sinistra di Bersani e neppure quella di Fratoianni. Considerato che il Pd è nato nel 2007, non c'è da fare affidamento sul fatto che qualcuno riesca a dare una risposta. L'altro tema della direzione è stato il tentativo di far rotolare la palla. I parlamentari vogliono tornare al proporzionale, ma il leader prende tempo: no a scelte utilitaristiche. Leggasi: vediamo cosa ci conviene fare quando saremo più sotto elezioni. Già, perché il segretario vuol allungare la vita di Draghi fino al 2023, in modo da aver tempo per rimettere insieme i pezzi del suo partito e di non essere travolto dal centrodestra in caso di elezioni anticipate. Ma ovviamente non lo dice apertamente. Afferma che SuperMario deve andare avanti per il bene del Paese, perché bisogna impostare bene il Recovery Plan.

 

 

 

 

Non siamo in grado di dare consigli al segretario del Pd per riconnettere il proprio partito al Paese. Possiamo ricordargli che un tribunale ha assolto Salvini dall'accusa di sequestro di persona mentre lui gira con le felpe delle organizzazioni non governative che hanno denunciato il capitano leghista, la cui politica migratoria vantava l'89% dei consensi. Il Paese vuole riaprire e Letta in cambio accusa la Lega e Forza Italia di fare politica sul Covid e voler sabotare il governo, schierandosi sulla linea della prudenza per coprire le inefficienze dell'esecutivo nel mettere in sicurezza il Paese. Assistiamo inoltre alla deriva della magistratura, a lungo punto di riferimento dei dem, senza che questi proferiscano parola. Lega e radicali propongono un referendum sui giudici, emergenza nazionale e i progressisti si schierano con la casta in toga. In compenso, il Pd spinge per promuovere il voto ai sedicenni, lo ius soli, le adozioni gay e le quote rosa, che però si guarda bene dall'applicare nel partito. La verità è che se il Pd fosse connesso con la realtà, non si sarebbe scelto Letta come leader.

 

 

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