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Filippo Facci, quello che è rimasto del pool di Mani Pulite: "Mancava solo Pierbirillo Davigo"

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In effetti mancava solo «Pierbirillo Davigo» (lo chiamavano così) per guardare con mestizia definitiva a ciò che un tempo era il mitico «pool» di Mani pulite, quello che a suo tempo demolì una Repubblica ma oggi ci costringe di continuo a revisionismi storico/giudiziari. A reggere lo scettro del duro e puro resisteva appunto Piercamillo Davigo, mentre Antonio Di Pietro è leggermente sputtanato e fa contadino, Gerardo D'Ambrosio è diventato senatore di sinistra e poi è morto, Francesco Saverio Borrelli è morto anche lui (pronunciando frasi inquietanti che vedremo) mentre Gherardo Colombo è andato in pensione dopo una trascurabile parentesi in Rai e da rassegnato educatore civico.

 Davigo come non vorrebbe essere ricordato? Non certo come uno che comunicava notizie riservate a un parlamentare dei Cinque Stelle in un sottoscala del Csm. Né come uno che ignorasse o violasse procedure, come l'hanno accusato d'aver fatto due suoi ex colleghi, non da soli. Come uno che dice di aver consegnato qualcosa a qualcuno, tipo il vicepresidente del Csm David Ermini, col vicepresidente Ermini poi a smentire tutto. Come uno la cui segretaria - proprio la sua, guarda caso - finisce indagata per aver passato materiale istruttorio a un giornale - guarda caso, un giornale molto amico- come Il Fatto Quotidiano. Già: ma per che cosa vorrebbe essere ricordato, uno come lui? Non possiamo saperlo. Non certo per esser stato cresciuto da una zia che si chiamava Benita e che è stata indicata come «rigida e autoritaria».

 

 

 

Non certo per leggende, tipo una scritta da un collega del Messaggero, Fabrizio Rizzi, secondo la quale un Piercamillo 13enne alla stazione di Mortara «sfidò la morte e bloccò un treno sui binari». E forse neppure per certe frasi che ha pronunciato o per altre che non ha neppure pronunciato. Per molti resta quello che dopo il suicidio del parlamentare Sergio Moroni disse che «le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti». Poi c'è tutta una serie di frasi tipo «gli innocenti sono tutti colpevoli non ancora scoperti», ma è tutta schiuma. Come lo è il suo aver detto «rivolteremo l'Italia come un calzino» anche se quella frase non in realtà non la disse mai: si limitò a riprendere una frase pronunciata da Giuliano Ferrara.

Ma che l'avesse detta lui, per qualche ragione, continua a risultare credibile a tutti. Ne ha pronunciate altre di frasi, forse più emblematiche. La presunzione d'innocenza: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». La corruzione: «Abbiamo preso le prede più lente e quelle più veloci l'hanno fatta franca». I magistrati scansafatiche: «Quelli italiani sono quelli che lavorano di più in Europa». I loro errori e negligenze: «Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi». Per che cosa vuole essere ricordato? Il problema è la memoria, anzi «il vizio della memoria» titolava un libro di Gherardo Colombo. Ma il tormentato Colombo è il primo a sapere come funzionava Mani Pulite: c'era Di Pietro che martellava ma la situazione si è modificata nel corso del 1994 quando le collaborazioni - usiamo parole testuali di un altro parziale ex di Mani pulite, Francesco Greco - «diminuirono fino a cessare fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino». E l'acqua, a dirla tutta, arrivava al mulino direttamente dal carcere.

 

 

 

Era il carcere, irrogato o temuto, che stimolava le collaborazioni. Era il carcere, coi suoi effetti, che era venuto a mancare durante quel cambio di stagione. E che cosa ha detto Gherardo Colombo nel maggio dell'anno scorso? «Il carcere è da abolire. La prigione oggi è disumana e incoerente con la Costituzione, ed educa a ubbidire e non a ragionare». Quel gran signore Francesco Saverio Borrelli, ancora da lucidissimo, ebbe momenti di resipiscenza che molti hanno cercato di rimuovere. Nel 2011 disse pubblicamente: «Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Qualche anno prima aveva detto che alla fine di Mani pulite «apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Parole simili ad altre messe per iscritto da Piercamillo Davigo: «Le vicende che mi hanno più impressionato non sono state quelle delle grandi tangenti... Sono le piccole vicende a deprimermi. Mi sono capitati due o tre processi dove centinaia di persone hanno pagato per non fare il servizio militare. Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti».

Chiudiamola qui. È inutile raccontare il piano inclinato di Antonio Di Pietro: basta guardarlo, ha somatizzato tutto, la sua faccia non mente e non ha mai mentito. È rimasto il personaggio incespicante e tristanzuolo che ha lamentato «la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa». Non grazie a Mani Pulite, almeno: che ha fatto piazza pulita di partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto ha smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito, e che il detersivo rivoluzionario ci ha restituito bianco e pulito come un cencio inservibile. E sul Pool di Mani pulite, sipario.

 

 

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