Vittorio Feltri, lezione di femminismo alla sinistra: "Cosa dovrebbero guardare oggi"
Le cronache famigliari, cioè delle nostre famiglie, siamo erroneamente convinti siano poco o niente interessanti, pertanto difficilmente esse trovano ospitalità sui giornali. Tuttavia, in alcuni casi, sono invece meritevoli di essere raccontate poiché significative, utili per ricostruire mentalità superate, epoche di cui abbiamo perso memoria. Ricordare il passato aiuta a capire il presente. Ecco perché oggi ho deciso di rendervi nota una vicenda risalente all'inizio del secolo scorso. Riguarda l'ambiente in cui crebbero mio padre e le sue due sorelle, i cui genitori erano nati entrambi nell'Ottocento. Allora soltanto i figli maschi avevano il diritto di studiare, le femmine al massimo potevano frequentare la scuola fino alla terza media, poi dovevano arrangiarsi, in quanto i genitori erano persuasi che fossero destinate a sposarsi e a fare le schiave di un marito. Cosicché solamente il mio papà, Angelo, ebbe modo di completare studi superiori regolari, le due ragazze, Narcisa, la più grande, e Armida, di qualche anno più giovane, vennero addestrate per compiere lavori domestici. Ma Narcisa aveva un temperamento da combattente, non si rassegnò al ruolo di sg**ra e pretese di guadagnarsi da vivere sgobbando per conto suo. Si fece prestare una carretta da un contadino e cominció a trasportare merci in vari negozi. Caricava qualsiasi cosa sul carro trainato da lei mediante le due stanghe, aiutata in questa attività dalla sorella minore.
Per due anni si sfiancò come un mulo finché non riuscì ad accantonare una somma di denaro sufficiente per riprendere gli studi. Si iscrisse alle magistrali e le terminò in un battibaleno, animata come era da sacro fuoco. Nessuno in casa le impedì di fare di testa sua. Quindi si trasferì a Pavia dove frequentò con successo la facoltà di pedagogia. A laurea conseguita, conquistò una cattedra e insegnò. Era talmente brava o, meglio, volonterosa, che a furia di schiaffoni obbligò anche Armida a studiare e a garantirsi un avvenire migliore di quello che si attendeva. In effetti, fu assunta all'ospedale Maggiore di Bergamo come capo dell'amministrazione. Narcisa nel giro di pochi anni fece carriera e divenne direttrice didattica. Mio padre invece era trionfalmente entrato alla Banca diocesana e percepiva uno stipendio discreto. Peccato che l'istituto di credito dei preti di lì a qualche anno fallì e lui rimase disoccupato. Mia nonna, Ester, non disse nulla al marito, Daniele, pertanto vendette una parte delle sue proprietà, ereditate dal babbo, e col ricavato dava l'equivalente dello stipendio perduto al suo erede affinché ogni mese potesse consegnare la busta col denaro a suo papà, il quale non si accorse mai che il figlio fosse rimasto senza impiego.
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Non passò molto tempo prima che Angelo vincesse un concorso all'Amministrazione provinciale e si rimettesse alla scrivania nel ruolo di segretario aggiunto, qualifica non disprezzabile. Mia zia Armida morì a 70 anni, era tifosa dell'Atalanta oltre che lesbica, però per le sue preferenze sessuali nessuno osò mai criticarla, erano affari rigorosamente suoi. La zia Narcisa invece spirò a oltre 90 anni ancora in forma, aveva la postura di un generale dei carabinieri, impartiva ancora lezioni private di latino e italiano e, dal momento che mi sapeva direttore di quotidiani, mi trattava da collega, con rispetto. Quanto a mio nonno, egli campò fino a 87 anni senza mai distruggersi dalla fatica, ma vantandosi della abilità e dell'impegno della sua prole. La nonna lo raggiunse presto nella tomba, pure lei orgogliosa delle due ex bambine sue. Questa breve narrazione nel mio intento ha un unico scopo: quello di dimostrare che il femminismo d'antan, quello dei tempi che furono, era glorioso e merita di essere celebrato. Un femminismo di fatti e non di retorica bolsa per quanto ridondante. Le donne sono sempre state un esempio di forza e di carattere e quelle di oggi guardino a quelle di ieri, grandiose, esempi da imitare.
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