Antonio Socci, l'analisi impietosa sul Pd di Enrico Letta: un'ammucchiata arcobaleno
Lo aveva preannunciato a marzo, nel discorso di "insediamento" alla leadership del Pd. Enrico Letta disse che si candidava alla segreteria, ma avvertì che non c'era bisogno di «un nuovo segretario, ma di un partito nuovo». I più vecchi dirigenti del Pci avranno avuto un sussulto, perché «partito nuovo» fu proprio la storica formula con cui Togliatti, nel 1944, costruì il suo Pci. E paragonare Togliatti e Letta lascia quantomeno perplessi. Ora finalmente si capisce cos' è, o cosa dovrebbe essere, questo partito "di Letta e di governo" (per parafrasare Berlinguer): il nuovo segretario vuole un partito che diventi finalmente simpatico agli italiani. Vasto programma. Francesco Merlo, che evoca il liscio di Raoul Casadei («Tu sei la mia/ simpatia...»), come fosse il nuovo testo ideologico del Pd, è problematico: «È difficile dire cosa sia la simpatia in politica. Enrico Letta vuole imporla "a tutti i costi".
Con "l'empatia" e il "volersi bene" sarà la nuova grammatica della sinistra di cui Letta non sopporta più "l'antipatia"». Si tratterà di un'impresa titanica per il segretario pd, perché - come si sa - non c'è niente di più disastroso del voler apparire per forza simpatici. Ma anche perché, in effetti, la Sinistra ha accumulato su di sé una tale montagna di antipatia che pare arduo uscirne. Alfonso Berardinelli, anni fa, scriveva: «La sinistra si crede in eterno affascinante e invece non piace, è antipatica e incomprensibile, supponente e malata di politica. Non dice quello che pensa e non è quello che dice». Il sociologo Luca Ricolfi dedicò addirittura un libro alla questione: «Perché siamo antipatici? (La sinistra e il complesso dei migliori)».
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Ricolfi enunciava alcune delle cause dell'antipatia che la sinistra suscita negli italiani: il linguaggio astruso e politichese, «la paura delle parole» (cioè la pretesa di imporre il politicamente corretto), «il senso di superiorità etica», con il conseguente «disprezzo» verso chi si ostina a pensarla diversamente: «una convinzione che non si esprime solo nella petulanza un po' rituale del politicamente corretto, nell'incapacità di intendere le ragioni degli altri o nella pretesa di illuminare ed educare chi non è d'accordo. Ma si esprime anche nelle forme più dirette e aggressive del disprezzo e della derisione». Poi c'è l'invenzione e la demonizzazione del Nemico (a quel tempo era Berlusconi, oggi Salvini: chiunque sia di ostacolo al loro potere) e quindi «la sindrome anti-italiana» che - si potrebbe aggiungere - si manifesta sempre con un atteggiamento punitivo nei confronti della gente. E con la convinzione, da parte della sinistra, di avere una «missione salvifica» che consiste nel credere di dover salvare l'Italia dalla catastrofe che sono i suoi avversari.
Si può dire che Letta e il suo Pd abbiano imboccato una strada diversa? Nessuno vede discontinuità. A un Paese messo ko dalla pandemia, con una catastrofe economica e sociale che si somma all'emergenza sanitaria, Letta parla di Ius soli, DDL Zan, voto ai sedicenni, Erasmus e altre idee del genere. La petulanza del politicamente corretto è ancora più soffocante del passato, il complesso di superiorità è tale e quale, così la propensione alla demonizzazione dell'avversario, per cui Letta sembra passare le giornate ad attaccare Salvini, aggrappandosi a qualunque cosa dica o faccia (sebbene oggi sia nella stessa coalizione di governo). In questi anni poi la "missione salvifica" si è trasformata addirittura nella retorica del sacrificio cosicché si ripete che il Pd - per quanto non lo voglia - si sacrifica e sta sempre al governo "per il nostro bene" (lo fanno per noi italiani). Insomma il «partito simpatico» per ora non si vede all'orizzonte. Tuttavia qualche altra novità c'è.
A sentire Filippo Andreatta, figlio del famoso economista e ministro (che fu maestro di Enrico), sembra che il Pd sia destinato alla rottamazione. Infatti Andreatta - che è molto vicino al segretario - in un'intervista al Corriere della sera - ha spiegato che con Letta inizia "la terza fase": perché «la prima era l'Ulivo, poi c'è stata la fusione fredda delle nomenklature» e «oggi dobbiamo costruire un'identità valida per il XXI secolo». Il Pd è stato dunque liquidato come «fusione fredda delle nomenklature». Con tanti saluti a Walter Veltroni che lo fondò a Torino nel 2007 proprio fondendo le nomenklature del Pci e della sinistra diccì. Perché sia ancora più chiaro che quel Pd dovrebbe essere rottamato, Andreatta mette in guardia dall'«errore del revisionismo storico» e ricorda che «Dozza e Dossetti, Moro e Berlinguer erano avversari, non dei ticket». Verissimo. Ma questo spazza via sia l'idea dell'Ulivo prodiano che quella del Pd veltroniano, entrambi basati sull'idea che Moro e Berlinguer andassero nella stessa direzione.
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Se dobbiamo prendere per buone le parole di Andreatta (che sono storicamente sacrosante) non si capisce più cosa sia il Pd lettiano. Del resto non ha nulla di democristiano e nulla di comunista, infatti aderisce al Pse, Partito del socialismo europeo, quindi, in teoria, dovrebbe richiamarsi alla storia socialista e specialmente a Craxi, ma si guarda bene dal farlo. Questo Pd nemmeno parla più ai cattolici, come dimostra l'ostinata campagna per il Ddl Zan a cui la Cei e papa Bergoglio sono contrari. Resta solo il tema dei migranti, su cui però, appena si arriva alle elezioni, sono pronti a ribaltare i comportamenti come accadde quando nominarono Minniti all'Interno. Pure l'ideologia di Maastricht che Letta ha professato dogmaticamente è stata oggi ribaltata. Cosa resta? Resta solo il continuo controcanto a Salvini, ma sarebbe illusorio pensare che basti questo a dare un'identità a un Pd smarrito. Di certo destabilizza il governo, ma non placherà nemmeno i mal di pancia della vecchia guardia zingarettiana per l'abbattimento di Conte e l'arrivo di Draghi.