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Roberto Speranza, la difesa del ministro sui morti fa acqua: Covid, cosa non torna sul numero delle vittime

Fausto Carioti
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Per fornire ai parlamentari della maggioranza appigli per salvarlo dalla mozione di sfiducia, il ministro della Sanità Roberto Speranza ha usato di tutto. Ha fatto l'indignato, dicendo che il mancato aggiornamento del piano pandemico «va affrontato con grande serietà, evitando di piegarlo alla polemica politica», e ha snocciolato numeri. Ha detto che «solo nella prima ondata l'Italia ha avuto un tasso di letalità più elevato, dovuto eminentemente alla durezza dell'impatto nel nord del Paese. Nella seconda si è mantenuta nella media europea e mondiale. E il tasso di letalità sui casi a partire dal 16 luglio è del 2,2%, una percentuale in linea con altri Paesi a noi vicini, per esempio con il 2,3% della Germania». Sono numeri tagliati su misura per confermare la sua tesi, ovviamente. A cominciare dalla data da cui fa iniziare la seconda ondata: il 16 luglio.

E dall'indice usato: il tasso di letalità, che misura il rapporto del totale dei decessi sul totale degli ammalati. Però le banche dati sul Covid abbondano, e controllare i numeri di Speranza, e usare un indice capace di descrivere meglio l'efficacia delle politiche adottate da lui e dai suoi colleghi, come il numero di morti per milione di abitanti, non è difficile. È ciò che ha fatto Libero, usando dati che ognuno può verificare, ricavati da Our World in Data. Il lasso temporale preso in considerazione per la seconda ondata è quello, più credibile, che va dal primo settembre a oggi (ma iniziando dal primo ottobre, come altri preferiscono fare, il risultato non sarebbe diverso).

 

 

ITALIA MESSA MALE
Ne esce fuori - sorpresa - che l'Italia non è affatto nella media europea. E che anche nella seconda ondata se l'è vista peggio di tutti i principali Paesi europei e occidentali. Da settembre a oggi, nel nostro Paese, i decessi per Covid sono stati pari a 1.396 per milione di abitanti. La media dell'Unione europea è stata inferiore: 1.218, ossia il 12,8% in meno. Detto in un altro modo, se fossimo stati allineati alla Ue ci saremmo risparmiati 10.780 morti. Sempre in rapporto alla popolazione, nella seconda ondata il Regno Unito ha avuto il 9,2% di morti in meno rispetto a noi: divario destinato ad allargarsi, visto che Oltremanica la campagna vaccinale è assai più avanti. Discorso simile per la Francia (-23,2% di morti per Covid rispetto all'Italia), la Spagna (-25,4%), la Svizzera (-29%), la Germania (-37,6%), la liberalissima Svezia (-42,2%) e gran parte del resto d'Europa, ad eccezione di Ungheria, Polonia e pochissimi altri Paesi che per prodotto interno lordo e infrastrutture non sono paragonabili a noi. Si è arrivati alla fine di aprile, intanto, con una media di vaccinazioni quotidiane negli ultimi sette giorni pari a 356.827, quindi ben distante dal mezzo milione che il generale Francesco Paolo Figliuolo aveva promesso di raggiungere in questo periodo, e senza che tale soglia sia stata raggiunta in un solo giorno: il record, al momento, sono le 396.770 iniezioni fatte il 23 aprile. Eppure l'obiettivo di ottenere una diffusa immunità dal Covid per la metà di luglio, indicato dal commissario Ue Thierry Breton e confermato dal presidente del consiglio Mario Draghi, sarà mancato se il numero di dosi iniettate ogni giorno non aumenterà molto presto, magari evitando gli inspiegabili crolli delle vaccinazioni che si verificano in tutti i fine settimana.

 

 

INCOGNITA FORNITURE
Resta poi l'incognita delle forniture. Il ministero della Sanità ha appena aggiornato la tabella delle dosi attese, in base alla quale nel secondo trimestre di quest' anno, ossia dal primo aprile al 30 giugno, dovrebbero arrivarne 62.029.066, circa 10 milioni in più di quanto era previsto, soprattutto grazie all'anticipo di alcune spedizioni da parte di Pfizer. In teoria, quindi, più che sufficienti per somministrarne 500mila al giorno, se si riuscisse a farlo. La pratica, purtroppo, è un po' diversa.

 

Intanto perché i contratti siglati da Bruxelles con i produttori sono trimestrali, e ciò comporta il rischio che le forniture scarseggino prima e poi si concentrino negli ultimi giorni del periodo previsto, in questo caso alla fine di giugno. E poi perché, in quei 62 milioni di vaccini che stiamo attendendo, ce ne sono alcuni che probabilmente non vedremo, almeno non nei tempi auspicati. È il caso delle 7.314.904 dosi della tedesca Curevac, che continuano ad apparire nelle tabelle del governo nonostante il farmaco non abbia ancora ottenuto l'autorizzazione dell'Ema. Altri 10 milioni di dosi, sempre in questo trimestre, dovrebbero giungere da AstraZeneca, che sinora non si è mai rivelata puntuale nelle consegne. E in alcune regioni, tra cui il Lazio, i prodotti di AstraZeneca e Johnson & Johnson presto saranno proposti agli abitanti con meno di 60 anni, per i quali altrimenti non ci sarebbero vaccini a sufficienza. Per quanto confortanti possano sembrare quei 62 milioni di dosi, insomma, non è il caso di stare tranquilli.

 

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