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I conti non fatti con il Sessantotto: quando nacque la peggio gioventù

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Francesco Carella
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Vi è una data simbolo in cui tutto prende l'avvio: il 1° marzo 1968. Le prove generali di una protesta che nel giro di poche stagioni si farà «progetto rivoluzionario armato» si fecero quel giorno presso la facoltà di Architettura a Valle Giulia a Roma. Per ore e ore gli studenti, al più rampolli della buona borghesia romana, si scontrarono con le forze di polizia, figli di operai e contadini del Sud Italia come ricorderà in perfetta solitudine Pier Paolo Pasolini. Quel giorno si affermò ciò che andrà a costituire l'alfabeto politico della "peggio gioventù", ovvero che scagliarsi contro le forze dell'ordine, mettendo a ferro e fuoco le città, cessava di fatto di essere un reato. Sicché non trascorse molto tempo perché si passasse dagli slogan truculenti al lancio delle bottiglie molotov, per arrivare alle P38.

 

 

L'Italia sprofondò, in tal modo, nel tunnel degli anni di piombo durante i quali l'eliminazione fisica dell'avversario divenne un "normale" strumento politico. Nessun Paese europeo conobbe un terrorismo attivo per un periodo così lungo e con un costo in perdita di vite umane così alto come il nostro. Dopo molti anni occorre dire la verità: quella stagione degli orrori si sviluppò nella misura che conosciamo perché essa poté godere di un'ampia area d'indulgenza, se non di vero e proprio consenso, presso una larga parte della sinistra italiana. I protagonisti degli agguati venivano considerati «compagni che sbagliano», quando altro non erano che assassini nemici dichiarati della democrazia liberale e dei suoi istituti di libertà.

 

 

Un gruppo di intellettuali lanciò, nei giorni del sequestro Moro, una parola d'ordine inquietante, «né con lo Stato né con le Br». Uno slogan che ne richiamava un altro, «né aderire né sabotare», che fu la disastrosa bandiera dei socialisti durante la Prima guerra mondiale e che dimostrava già all'epoca quanta distanza vi fosse fra l'universo della sinistra e le ragioni del Paese. D'altronde, gran parte dell'establishment culturale italiano degli anni '60 e '70 proveniva da una tradizione in gran parte lontana dagli interessi nazionali - quella «dell'album di famiglia» di cui parlò Rossana Rossanda - che «non aveva escluso, ma solo tatticamente tacitato, l'ipotesi di fare ricorso alla violenza come strumento di lotta politica». In un clima siffatto, ci fu chi si convinse di rappresentare «l'avanguardia rivoluzionaria in grado di riconoscere il momento giusto per forzare la storia ed abbattere lo Stato borghese». E fu l'inferno. Ora, al di là dei destini dei singoli terroristi arrestati a Parigi, ciò che continua a stupire è che in Italia non si riesca ancora ad aprire il capitolo sulla responsabilità morale di coloro che il filosofo Nicola Matteucci chiamava «i cattivi maestri del lungo '68»

 

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