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Debora Serracchiani, ecco che tipo di femminista è: tutta la verità sulla piddina che vuole il potere ma non sa usarlo

Alessandro Giuli
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Spiace contraddire le contorsioni femministe di Enrico Letta, ma rispetto a Debora Serracchiani il suo predecessore Graziano Delrio sembra Winston Churchill sotto adrenalina. E invece il nuovo segretario ha preferito piazzare lei alla presidenza dei deputati democratici, illudendosi di lavare così l'onta maschilista di Nicola Zingaretti che aveva dovuto ricollocare i tre capicorrente nella delegazione di governo del Pd. Spiace, dicevamo, anche perché la Serracchiani non è certo l'ultima arrivata: la conosciamo dal 2009, quando si è imposta all'attenzione del Partito democratico contestandone la classe dirigente che aveva appena rottamato Walter Veltroni, per diventare eurodeputata di lì a poco, quindi presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia; poi si è stabilmente piazzata nel ruolo di responsabile nazionale dei Trasporti e infrastrutture del Pd, transitando per le segreterie di Guglielmo Epifani e Matteo Renzi fino a diventare vicesegretario con il bullo di Rignano (2014) e vicepresidente di Paolo Gentiloni (2019).

 

 

 

Luogocomunismo

Da una donna con un tale cursus honorum ci si dovrebbe attendere competenza e presenza scenica di prim' ordine. E invece, fin dall'esordio dopo l'incoronazione da parte dei colleghi di Montecitorio a fine marzo, eccola subito spiaggiata sulle rive del luogocomunismo lettiano: dalla battaglia lunatica per lo ius soli alla «questione femminile» come passepartout indifferenziato, attivato però a corrente alternata: «La leadership al femminile deve essere un'occasione per il partito di cambiare le logiche che lo tengono intrappolato», ha scritto subito dopo l'elezione a capogruppo, senza però spiegarci perché qualche settimana prima aveva rinunciato a sfidare lo stesso Letta per la segreteria del Pd come le aveva chiesto la corrente rosa delle Donne democratiche in cerca di riscatto femminista. La verità è che Serracchiani, essendo donna di potere e quindi di apparato, ha preferito sottostare a un accordo tutto al maschile fra gli ex renziani di Base riformista e la nuova segreteria lettiana, ricevendone in premio la guida del gruppo parlamentare come contropartita di un testacoda inatteso dalle colleghe («noi donne dem dobbiamo prendere sul serio la sfida per la leadership, che dobbiamo mettere sul tappeto senza alcuna timidezza», aveva illuso tutte in un colloquio con il Riformista). Ma stiamo parlando di cose minute e un po' labirintiche. Dalla sempre compunta e inappuntabile Serracchiani - già compilatrice di un memorabile dress code da educand* per sindac* friulan* quando governava la Regione - nessuno ha finora ricevuto segnali di particolare vitalità politica che non fossero la quieta, ordinata e avvocatesca parafrasi d'un credo partitico del segretario di turno. Mai una parola fuori posto, un cenno d'insofferenza, un tratto distintivo e un contributo rimarchevole al dibattito pubblico. Acqua cheta, appunto, capace di scorrere indisturbata tra la vocazione maggioritaria e grancoalizionista di Renzi, la svolta ribaltonista giallorossa di Zingaretti e, adesso, le larghe intese con la Lega dell'arcinemico Matteo Salvini ereditate da Letta jr.

 

 

 

Acqua cheta

Non è colpa sua, e tuttavia ella rappresenta una maledizione per ogni ritrattista che voglia indagarne l'imperscrutabile ragion d'essere: si finisce in un precipizio di stordimento letargico a rimpiangere la corposa mitezza di Delrio, che non è un fulmine di guerra ma per lo meno alle sue spalle lascia avvertire la presenza di un mondo e di una storia tridimensionali. Ad ogni modo, dopo aver letto i suoi ultimi, piatti e sacrosanti tweet indignati per i noti oltraggi subiti in Turchia da Ursula von der Leyen o per i maltrattamenti di genere riservati da cattivi genitori a una figlia lesbica, restiamo in fiduciosa attesa che Serracchiani ci smentisca in maniera squillante, s' intesti una battaglia originale, una fronda improvvisa o anche solo un emendamento che non sia telecomandato dal Nazareno. In alternativa va bene anche un selfie spettinato e rockettaro, purché sia vita.

 

 

 

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