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Dario Franceschini, un ministro succube del Cts: e intanto Cultura e spettacoli in Italia muoiono

 Dario Franceschini, ministro

Gianluca Veneziani
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Ci mancano solo le bande di paese, gli improvvisatori di strada, i mimi, gli animatori dei villaggi e i due leocorni e poi non manca più nessuno. Il ministro della Cultura Dario Franceschini è riuscito nell'impresa impossibile: mettere d'accordo tutti. Contro di lui. Non appena si è saputo che lo stadio Olimpico riaprirà l'11 giugno, ospitando il 25% degli spettatori in occasione della partita di esordio degli Europei di calcio, gli operatori della cultura e dello spettacolo si sono uniti in coro per dire: e noi? Sono scesi in campo musicisti e musicanti, cantanti e rappresentanti di categoria, da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, incazzato perché «la musica viene maltrattata e considerata un bene di lusso», a Colapesce e Dimartino che, toccandola in maniera non proprio leggerissima, ricordano che «l'immobilità non è una soluzione», fino a Max Gazzè che, minacciando, avverte: «Se serve suonerò per strada»; e poi ci sono Enzo Mazza, ceo della Fimi (Federazione dell'Industria Musicale Italiana), che definisce «una farsa» la scelta di aprire lo stadio a 16mila tifosi, ma prevedere al massimo 1.000 persone per un concerto, e Vincenzo Spera, presidente di Assomusica, che fa capire forte e chiaro che, anche con una capienza al 50%, non si lavora mica perché ci vuole almeno il 65% degli spettatori.

 

 

 

Franceschini prova a giocare in difesa e di rimessa, promettendo che «se si dovessero autorizzare eventi sportivi con pubblico, le stesse regole dovrebbero riguardare concerti e spettacoli negli stadi o in spazi analoghi» e ribadendo che «dobbiamo puntare nei prossimi mesi a una serie di eventi all'aperto». Parole che lasciano il tempo che trovano, in quanto le proposte di Franceschini (luoghi dello spettacolo riempiti al 50%, con un massimo di 500 persone al chiuso e 1.000 all'aperto) dovranno passare al vaglio del Comitato tecnico-scientifico, e non è affatto detto che questo dia il via libera. A maggior ragione che già il vecchio annuncio del ministro, con la ripartenza per cinema e teatri fissata al 27 marzo, è restato lettera morta. E allora i rappresentanti del settore musica no, stavolta, non se la bevono. Ligabue, Gianna Nannini e Piero Pelù hanno già dato la loro disponibilità ad aderire alla manifestazione di protesta Bauli in Piazza, in programma domani a Roma, che riunirà per la seconda volta operatori nel mondo della musica dal vivo, dello spettacolo, degli eventi, delle fiere, tutti in attesa di sostegni e regole chiare per la ripartenza. Se la musica piange, il teatro non ride. È di due giorni fa l'occupazione del Global Theatre di Roma da parte di un gruppo di lavoratori dello spettacolo e della cultura che chiedono attenzione, al suon di un motto di Gigi Proietti «A noi gli occhi, please!»; mentre al teatro Piccolo di Milano attori e operatori del settore si sono riuniti per invocare immediate riaperture.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È il fenomeno, drammatico e non in senso artistico, degli occupanti disoccupati: gente che da oltre un anno non lavora e deve prendere possesso abusivo di uno spazio che di solito è il proprio habitat. E se dal mondo dei musei si leva un altro grido di dolore, con il sindacato Uilpa che ricorda come siano stati «trascurati i fattori che avrebbero permesso riaperture parziali», non mancano neppure le rivalità tra i vari settori della cultura: l'attore Paolo Rossi accusa Franceschini di voler «privilegiare i musei e non gli attori, perché le statue non devono pagare il mutuo e non rompono i coglioni». È una guerra di tutti contro tutti, sì, ma è soprattutto una guerra di tutti contro uno. Lui, Dario. Già premier occulto del governo Conte, uomo forte del Pd, che tuttavia si è dimenticato di dover fare gli interessi delle categorie che rappresenta da ministro della Cultura. Durante un anno e passa di pandemia Franceschini si è trasformato in un rigorista-chiusurista che, anziché liberare la cultura, l'ha imprigionata. E lungi dal considerare l'arte vero mezzo di evasione dalla prigionia fisica del lockdown e di consolazione spirituale, ha lasciato che venisse sacrificata per prima, insieme alla scuola. Senza mai dare segnali di resistenza: Franceschini è apparso privo di un peso politico specifico, perché commissariato dalle decisioni del ministro della Salute e del Cts. Se gli si può trovare una colpa, e grave, è quella di aver peccato di impotenza e rassegnazione. Di aver assistito passivamente al crollo del settore che a lui fa capo, come un osservatore inerte e distaccato. Più che Franceschini lo chiameremo Franceschiello, come il sovrano dei Borbone che si arrese senza combattere e si accorse che il suo regno era finito quando lo aveva già perduto. Anche Franceschini ora deve far fronte alle sollevazioni di piazza, alla rabbia di chi vuol cambiar regime: solo che i manifestanti sono molti di più di Mille e forse anche più incazzati.

 

 

 

 

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