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Malika Chalhy, nessuno dice che la ragazza ripudiata perché lesbica è di famiglia islamica

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Malika Chalhy

Giovanni Sallusti
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La cronaca non esiste più, esiste solo la propaganda, in questa versione peggiorativa dell'incubo orwelliano che sono i tempi in cui ci è dato vivere. Non è che il Media Unico politicamente corretto deformi la realtà, siamo oltre: non esiste nessuna realtà, se non quella che conferma i tic, le pose, l'ideologia perbene e pettinata del suddetto Media Unico. Prendete la storiaccia di Malika Chalhy, la ventiduenne di Castelfiorentino cacciata di casa perché lesbica. Insultata, minacciata di morte, diseredata. Tra il campionario offerto dai famigliari gentiluomini: «Se torni ti ammazziamo, meglio 50 anni di carcere che una figlia lesbica» (i genitori); «ti taglio la gola» (il fratello); «io non so chi sia questa persona» (la madre, dopo che la ragazza è tornata a casa in compagnia dei Carabinieri per ritirare almeno qualche effetto personale).

Grande e sacrosanto baccano mediatico attorno a Malika, giustamente presentata a testate unificate come vittima di un'omofobia cieca, fanatica, bestiale. Scatta una gara di solidarietà tra i vip arcobaleno, la cantante Elodie lancia una raccolta fondi in sostegno della giovane che ha già superato i 30mila euro (applausi), Vladimir Luxuria definisce, con tutte le ragioni, «contronatura» i genitori che bandiscono la figlia, i sostenitori della legge Zan ne approfittano per inondare le agenzie di dichiarazioni sulla retriva e patriarcale inclinazione italica all'omofobia.

Chi non resiste a buttarla direttamente in politica è Fedez, che nella veste di opinionista riesce a essere perfino più mediocre che in quella canora, e se la prende con «i vari Pillon, associazioni cattolico-estremiste, antiabortisti» (la colpa è di senatori leghisti e Chiesa cattolica, in sintesi). Tutto bene, anzi no, perché nessuno cita un lievissimo, infinitesimale dettaglio, quello per cui i famigliari di Malika, gli odiatori contro il diritto e perfino contro il proprio stesso sangue, sono di cultura islamica. Lo ha ricordato il portale FeministPost, non esattamente un covo di fascio-sovranisti. Che racconta come il padre si chiami Aberrazak e sia di origine marocchina, il fratello si chiami Samir, e soprattuto sul profilo Facebook del primo circolino foto di tutta la famiglia con le donne velate.

Come riporta lo stesso sito, è impossibile stabilire il livello di ortodossia religiosa di quella casa, ma quel che è certo è che la tragedia di Malika ha come sfondo un contesto (pseudo)culturale musulmano. Spiace, editorialisti e musicanti che vi retwittate a vicenda, ma in questa storia inascoltabile non c'entra l'associazionismo cattolico, non c'entra nemmeno la tessera della Lega, c'entra invece quella che la grande scrittrice e dissidente somala Ayaan Hirsi Ali ha definito «la più pericolosa forma di omofobia ai giorni nostri»: quella «islamica». Del resto, per quanto non sia mai un tema gettonato negli appelli filo-gender della buona società nostrana, i gay vengono decapitati nella sunnita Arabia Saudita, impiccati nello sciita Iran, gettati dai tetti nei territori ancora controllati dall'Isis. Dove c'è Islam, spesso c'è persecuzione omicida e fondata teocraticamente delle persone omosessuali. Una lunga scia di odio, che può prolungarsi anche fino a un piccolo borgo sui colli fiorentini. Ma, statene certi, non arriverà mai sulle prime pagine dei giornaloni.

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