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Domenico Arcuri indagato? Non importa, andava cacciato per la sua spocchia: il dovere di dirlo

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 Domenico Arcuri

Iuri Maria Prado
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Dispiace per due motivi che Domenico Arcuri, l'ex Zar di tutte le emergenze, sia destinatario di attenzioni inquirenti. Dispiace innanzitutto perché bisogna essere solidali con chiunque finisce nel mirino della giustizia penale e in quello anche più grossolano della stampa che mette tra parentesi, e a volte nemmeno, la presunzione di innocenza. Ma dispiace soprattutto perché il processo a Domenico Arcuri - quello che si farà se i magistrati troveranno qualcosa di effettivo da processare, o quello che non si farà se non troveranno nulla - sarà il colpo di spugna su responsabilità infinitamente più gravi rispetto a quelle che in ipotesi potrebbero essere accertate in sede penale.

 

 

 

 

Quel funzionario dall'eloquio disinvolto, che usava le pagine dei giornali e le conferenze stampa per riaffermare torvo l'indiscutibilità delle proprie iniziative anziché per renderne conto, sino all'allusione obliqua alla querela in faccia al giornalista che si lasciava andare alla domanda scomoda, ha rappresentato durante l'anno del suo imperio tutto ciò che il potere dovrebbe evitare e respingere: e cioè l'idea che esercitarlo autorizzi a starsene impettiti davanti ai sudditi anziché compostamente piegati davanti alle proprie responsabilità. Alla somma di fallimenti, di inciampi, di svarioni operativi di cui diede prova il super commissario non fece mai riscontro non si dice un gesto di contrizione, ma neppure il tenue riconoscimento di non aver fatto tutto proprio benissimo: e se mancavano le mascherine non era colpa di chi non ne aveva stoccate quand'era necessario, e cioè quando a fronteggiare l'epidemia eravamo prontissimi soltanto a parole, ma era colpa dei produttori che avevano la pretesa di non vendere sotto costo e dei liberali da divano che rimanevano perplessi davanti al rimedio del calmiere; se mancavano i banchi per le scuole la colpa non era di chi aveva fatto qualche pasticcio con i bandi, ma dei falegnami che si azzardavano a eccepire che qualcosa non filava per il verso giusto se gli ordinavano di consegnare ieri i manufatti ordinati domani; se si vaccinava poco era colpa della Ue, dell'Ema, dell'Aifa, delle Regioni e insomma di chiunque, ma non del modello italiano su cui prendeva appunti il mondo intero.

 

 

 

 

Il tutto con il ricorso a una spocchia comandina che ornava la quotidiana concione di Arcuri di roba tipo "non voglio mai più sentire che bisogna togliere lo stato di emergenza", per poi passare all'ammonimento pretesco che raccomandava "pazienza e sacrificio" nel dispiegarsi del trentaseiesimo Dpcm, il collage dei verbali del comitato tecnico scientifico che la trasparenza italiana teneva secretati finché un tribunale non ha costretto il governo a cacciarli fuori. Sono queste le cose che avrebbero dovuto chiamare a giudizio Domenico Arcuri e chi l'ha officiato a quel ruolo di multipla e arrogante inefficienza.

 

 

 

 

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