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Papa Francesco, Antonio Socci: l'ipocrisia del Pontefice sulla proprietà privata

Antonio Socci
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Papa Bergoglio è tornato a mettere in discussione la proprietà privata (che «non è intoccabile») e a parlare di comunismo. La prima lettura della messa di domenica gliene ha offerto l'occasione e lui ha commentato: «Gli Atti degli Apostoli raccontano che "nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune". Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro». In effetti, condividere i propri beni non è affatto comunismo. Quando hanno preso il potere, i comunisti hanno condiviso i beni altrui, anzi hanno preteso di abolire la proprietà privata in nome della proprietà statale. Che poi è il dominio del Partito. Tuttavia è assai discutibile che quella pagina degli "Atti degli apostoli" sia "cristianesimo puro". Inoltre usare quel passo per discettare di economia e di politica, come fa Bergoglio, è storicamente infondato. Repubblica considera le sue parole «una sfida al capitalismo» e Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (cioè l'economista di Bergoglio), le connette all'articolo 43 della Costituzione. Tutto assurdo. Intanto perché gli Atti parlano di una scelta libera e volontaria dei fedeli, non di costrizione o legge. Inoltre è una comunità religiosa, non lo Stato: guai a sovrapporre le due cose. Lo fanno gli islamici con la Sharia, ma il Vangelo invita a distinguere fra Cesare e Dio.

DISSIDI E RISENTIMENTI
In secondo luogo, gli Atti dicono che «quanti possedevano campi o case li vendevano» e deponevano il ricavato «ai piedi degli apostoli» perché fosse distribuito. Quindi non c'era la "Chiesa povera" vagheggiata da Bergoglio, ma il contrario. E, com'è noto, quella redistribuzione dei beni produsse dissidi e risentimenti nella comunità cristiana: un esito moralmente fallimentare. Ma chi conosce il Nuovo Testamento sa che quell'esperimento di (presunto) "comunismo cristiano" fu anche un disastro economico (la Chiesa ha sempre evitato di imitarlo), come, in seguito, il comunismo ateo. Infatti, prima i cristiani di Antiochia (At 11,29) e poi san Paolo stesso (2 Cor) dovranno fare delle collette per quei fratelli "comunisti" che erano finiti in gravi difficoltà (Romani 15,26-27). La tanto decantata comunione dei beni di cui si vantava la comunità di Gerusalemme, dicendo che «nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), era fallita.

 

 

Se «quanti possedevano campi o case», invece di venderli e donare il ricavato alla comunità per i poveri, li avessero messi a reddito, poi avrebbero potuto aiutare i bisognosi in modo continuativo e senza ridursi essi stessi in povertà. Questa è la lezione che i cristiani hanno imparato, per i secoli seguenti (non puoi distribuire ricchezza se non la produci). Ma il riferimento papale a quel passo degli Atti, per attaccare la proprietà privata, è anche controproducente. La Chiesa oggi ha un patrimonio immobiliare enorme. Il Mondo, anni fa, scriveva che «un quarto di Roma, a spanne, è della Curia». Donarlo e metterlo in comune non sarebbe sensato né giusto, perché la Chiesa ha le sue necessità. Tuttavia qualcuno - ascoltando le parole del papa - potrebbe anche chiedersi perché lui, che ha un potere totale, non applica le sue idee a queste proprietà. C'è chi ha scritto che Bergoglio «non vede l'ora che lo provochino su questo punto, per potere svende Nel 25 d.C. a Roma, alla presenza silenziosa dell'imperatore Tiberio, il Senato processa uno dei suoi membri, Aulo Cremuzio Cordo, accusato da due scherani del potentissimo prefetto del pretorio Seiano di lesa maestà.

Cioè, come ci racconta Tacito in due celebri capitoli del libro IV degli Annali, di un reato d'opinione: aver elogiato nella sua opera storica i cesaricidi Bruto e Cassio, gettando così un'ombra sinistra sul principato di Augusto e del suo successore. La sentenza, nonostante un'appassionata autodifesa dell'imputato, decreta la messa al rogo del testo, mentre l'autore, ormai anziano, si lascia morire di fame. Eppure, le fiamme non bastano a cancellare il ricordo della vicenda, anzi. Grazie a Caligola alcune copie dell'opera incriminata, miracolosamente salvatesi, tornano a circolare, pur se re tutto e chiudere bottega». Ne dubito. Del resto, oltre ai beni ecclesiastici, ci sono quelli personali. Di recente è apparso su Repubblica questo titolo: «Il sacco del Vaticano: "Svuotato anche il conto del Papa"». Sottotitolo: "Prelevati perfino 20 milioni di sterline dal deposito riservato di Francesco".

 

 

Un vaticanista autorevole come Aldo Maria Valli ha scritto: «Mi occupo di Vaticano da anni, ma non avevo mai sentito parlare di conprive delle parti più pericolose, assieme agli scritti di due altri dissidenti, Tito Labieno e Cassio Severo. Fino a Svetonio, l'ultimo a citarle, le pagine dello storico dalla schiena dritta vengono insomma lette. Poi, il buio. Ma qualcosina si è salvato ancora. Quanto leggiamo nel volumetto Gli Annali. Testimonianze e frammenti ( La Vita Felice, pp. 144, euro 11, con testo latino a fronte) curato da Mario Lentano. Il quale vi aggiunge anche due frammenti dubbi, tramandati da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e concernenti temi mitologici, di certo non appartenenti agli Annali del nostro Cremuzio e probabilmente da attribuire a un omonimo, e altrimenti ignoto, autore di mirabilia mito-geografici ti riservati intestati ai papi». Oltretutto un conto di grande entità, sorprendente per un papa che parla sempre male del denaro e in un'omelia affermò: «San Pietro non aveva un conto in banca» (11 giugno 2013).

CONTO CORRENTE
Chi siamo noi per discutere del conto corrente del papa? Nessuno. Però è doveroso dibattere delle sue parole sulla proprietà privata altrui, perché questo è un tema che riguarda i nostri portafogli. Un'intellettuale laica come Barbara Spinelli, anni fa, metteva in guardia gli intellettuali e la Chiesa dalla (facile) condanna del denaro come sterco del demonio. E indicava come esempio positivo il card. Giuseppe Siri che era ben lungi dalla demonizzazione della proprietà e del denaro e dall'idealizzazione della povertà, sapendo che la miseria è una disgrazia, non un valore positivo. Scriveva la Spinelli: «Il cardinale Siri, che era un conservatore, coltivava una vicinanza ai poveri che spesso è coltivata dai veri conservatori. Usava ripetere il proverbio: Homo sine pecunia imago mortis... Anche queste antiche saggezze sono realistiche L'assenza di pecunia è assenza di cibo, di vita, di fede nell'altro. Gli accenni di Siri al denaro fanno pensare a una Chiesa che non si occupa solo dei primi nove mesi di vita e delle ultime ore dell'uomo, ma anche di quello che c'è in mezzo: un corto tragitto mortale, ma non sprezzabile».

 

 

Immagino che papa Bergoglio condividerebbe questa preoccupazione, ma il suo armamentario ideologico - opposto a quello di Siri - appare confuso e contraddittorio. È un pensiero populista e astruso. Lo dimostra anche uno degli astri nascenti del firmamento bergogliano, il vescovo di Siena Augusto Paolo Lojudice, appena creato cardinale perché - stando alle voci - è il nuovo candidato di Bergoglio alla presidenza della Cei quando, fra pochi mesi, il card. Bassetti passerà la mano (le quotazioni del card. Zuppi sarebbero in crollo verticale). Nei giorni scorsi Lojudice ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica (edizione toscana) sulla crisi che viviamo a causa del Covid e in un'intera pagina - dove nomina papa Bergoglio - non parla mai, neanche una volta di sfuggita, di Dio, di Gesù Cristo, di preghiera o sacramenti, né di morte o vita eterna. Solo banalità sociologiche. Parla più come un politico, con conoscenza superficiale dei problemi, che come un pastore d'anime. Questa è una Chiesa in uscita che non sa dove andare e non aiuta né le anime, né i corpi.

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