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Vittorio Feltri, la confessione: "Il giornalismo? Raccomandato da un prete. A Dio farei una sola domanda"

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Alessia Ardesi
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In questo anno terribile la morte ci ha sfiorati e ha rapito molti dei nostri cari, riproponendoci domande che avevamo accantonato: l'Aldilà, la fede, la spiritualità. Questa serie di interviste non poteva che concludersi con il fondatore di Libero. 

Direttore Feltri, qual è il suo primo ricordo?
«Ero nella culla, quindi così piccolo che non so come faccio a ricordarlo, mi sentivo triste e reclamavo mia mamma».

Della scuola cosa le è rimasto?
«Alle elementari avevo un maestro, Natale Dolci. Un uomo, in effetti, dolcissimo. A sei anni, dopo che avevo perso mio padre, passava sotto casa mia tutte le mattine, a Bergamo di mezzo, con la Lambretta sidecar. Mi faceva salire accanto a lui e andavamo a scuola insieme. Mi sentivo un re».

Ha più rivisto il suo insegnante?
«A distanza di cinquant'anni mi è venuta voglia di fare un articolo su di lui. Il figlio lo lesse e mi avvisò che aveva più di novant'anni ed era malato. Andai a trovarlo e fu molto emozionante per tutti e due. Mi disse: "Caro Vittorio eri molto bravo, ma un po' troppo sintetico"».

 

 

Che studente era Vittorio Feltri?
«Vinsi un concorso per il miglior tema e andai a leggerlo nella quinta femminile (allora classi miste non ce n'erano). Alla fine tutte le ragazze mi applaudirono, tranne una: era Marialuisa Trussardi. La guardai. Aveva occhi meravigliosi, mi sembrò quasi di essermi innamorato all'istante, anche se ero arrabbiato che non mi applaudisse come le altre».

Vi fidanzaste?
«No. Però tiravamo di scherma insieme. Usavo il fioretto per correggere la sua posizione, per farle raddrizzare le gambe. Lei mi accusava di picchiarla; ma non era vero (Feltri sorride, ndr) ».

Com'era la sua famiglia?
«Mia mamma, Adele, aveva un'attività commerciale, vendeva pasta "Combattenti", quella dei reduci di guerra. Fin da piccolo andavo al lavoro da lei. Mi sentivo adulto a sistemare i camion che arrivavano nel piazzale della fabbrica, e a indicare dove dovessero essere parcheggiati».

E suo papà?
«Si chiamava Angelo. Era un funzionario dell'amministrazione provinciale di Bergamo. Ha avuto la cattiva idea di morire a 43 anni».

Di cosa?
«Morbo di Addison. Oggi si guarisce con due pastiglie di cortisone. Poche ore prima di spirare, mi volle vedere per salutarmi. Gli occhi erano già spenti, non riuscì a sorridermi, ma mi prese la mano. Poi uscii dalla stanza, vidi mia mamma che sussultava per i singhiozzi e capii che era finita. Ricordo i funerali come se fosse ieri. Mi sentivo smarrito. Il maestro mi trattava come un orfano, ma io odiavo la retorica degli orfani. Lui mi regalò un libretto della banca di risparmio lombardo, con 500 lire».

Ha fratelli?
«Due: Ariel e Mariella. Con loro ho un rapporto distratto. In casa con noi c'era anche la sorella di mamma, zia Tina, che mi ha fatto da madre».

Come era la zia?
«Una donna deliziosa. L'ho "sfruttata" perché mi rifiutai di andare all'asilo. Misi in piedi un casino per riuscire a non frequentarlo. E così trascorrevo le mie giornate con lei».

Cosa facevate?
«Avevo già una vera passione per i giornali. Così prendevo una sedia, che usavo come tavolino, sopra cui appoggiavo i quotidiani. Io ci mi mettevo seduto davanti, su uno sgabello, e cominciavo a fare domande alla zia per capire cosa ci fosse scritto. Ogni tre minuti la torturavo chiedendole il significato delle parole. Dopo sei mesi sapevo leggere e scrivere».

 

 

Come si è sviluppato il suo interesse per il giornalismo?
«Fin da giovane, con i soldi che raccattavo in famiglia, compravo l'Eco di Bergamo e me lo portavo a scuola. Ero affascinato dalla cronaca nera. Mi domandavo: "Chissà se anche io da grande riuscirò a scrivere cose meravigliose..."».

Qual è stato il suo primo lavoro?
«Il fattorino. Avevo 14 anni. La mia famiglia non aveva grandi disponibilità economiche e dovevo aiutare. Poi ho frequentato un corso da vetrinista, dalle 7 alle 10 di sera. Alla fine il maestro mi prese a lavorare con sé. Mi dava una quota degli incassi: a lui il sessanta per cento, a me il quaranta. Guadagnavo bene. Quando arrivai a tre milioni - con due milioni a quei tempi si poteva comprare un appartamento - sospesi le mie attività professionali».

Perché?
«Avevo fatto la terza media, ma non mi bastava. Cominciai ad andare a studiare nella migliore biblioteca di Bergamo. Un giorno mi avvicinò Angelo Meli, il direttore e priore della basilica di Santa Maria Maggiore. Era, per intenderci, uno di quei monsignori con i calzini rossi. Mi chiese perché stessi lì tutto il giorno».

Come rispose?
«Che volevo il diploma. Lui era anche professore di eloquenza al seminario diocesano e mi offrì il suo aiuto. Iniziai a frequentare la canonica per tre ore al giorno. Mi massacrava, era di una cultura infinita e di un'intelligenza superiore. Aveva un liberalismo mentale che non ho più trovato nemmeno nei liberali. Facevamo lezione lui e io da soli, in bergamasco o latino - che parlava benissimo. Studiavamo come matti e ci divertivamo».

Le è servito?
«Ho imparato tantissimo e anche in fretta per merito suo. Quando leggevamo Dante diceva: "Sommo poeta, ma un po' troppo bigotto". Quando eravamo sul Manzoni: "Anche lui un padre della lingua italiana, ma un po' troppo prolisso". Ancora oggi quando scrivo sto attento ai suoi insegnamenti. Non ho avuto un padre, ma lui lo è stato per me».

E poi?
«Una volta superato l'esame di maturità lui telefonò subito al direttore dell'Eco di Bergamo, Monsignor Spada: "Ho un mio allievo, si chiama Feltri, dagli una mano"».

Quindi ha cominciato grazie a una raccomandazione dei preti?
«Sì. Lui non mi parlava mai di religione. Ma io lo interrogai: "Perché crede in Dio?". E lui: "Ma in chi cavolo credi che creda? In te?"».

 

 

Frequentava la chiesa?
«Ho fatto il battesimo, la comunione e la cresima. Sono andato a messa fino ai quattordici anni. Poi ho smesso. Mi fermavo spesso alla chiesa di Santa Rita, che si trovava lungo il tragitto verso scuola».

Si fermava a pregare?
«No, entravo perché volevo parlare con Dio; poi mi sono accorto che non rispondeva. La mia famiglia mi ha educato con valori cristiani, ho vissuto tutta la vita da cristiano, ma non credo nel Signore. Non sono però un anticlericale».

È andato all'oratorio?
«Certo. Al San Filippo Neri, che ai miei tempi era solo maschile, le femmine andavano in quello delle canossiane. Giocavo a calcio. Ci insegnavano anche la dottrina. E non mancavo ad alcun appuntamento religioso. Mi adattavo alle regole, non per conformismo ma perché volevo cercare di capire. Il direttore del mio oratorio era simpaticissimo, e riusciva a tenere tra noi ragazzi una disciplina ferrea».

Gianni Rivera ha detto che lei era molto bravo con il pallone...
«Mi piaceva. Una volta monsignor Mansueto, un prete con cui sono cresciuto, mi chiese di giocare con i seminaristi di Bergamo, fingendo di essere uno di loro perché per il torneo erano in dieci. Prima di entrare in campo mi raccomandò di non bestemmiare, sarei stato subito scoperto. Mi divertii molto, ogni volta che qualcuno sbagliava le uniche imprecazioni che mi uscirono furono "accidenti", "caspita"».

Prega?
«Non se ne parla neanche. Do sempre il mio otto per mille alla Chiesa Cattolica, perché so che usano il denaro per fare del bene alla gente. Degli altri non mi fido, lo dico senza retorica».

Cosa c'è al termine della vita?
«Il cimitero. Si può fantasticare, sperare in qualcosa che dà continuità alla vita, ma è del tutto improbabile. L'umanità ha bisogno di pensare di non morire. Anche l'immortalità dell'anima non è provata da nulla. Sono speranze che cerchiamo di immaginare per consolarci».

Ha mai parlato di questo con un sacerdote?
«Molto spesso. Quando abitavo in città alta, andavo sovente a cena in trattoria con monsignor Mansueto e capitava di trattare questi argomenti. Era lui a bloccarmi: "Ada Vittorio! Parlem mia de chi laur che: go emò i döbe, se asculte te no ga crede piö del töt"; guarda Vittorio, non mi parlare di queste cose perché già ho i miei dubbi, se ascolto te non ci credo più... Ovviamente lo diceva scherzando».

Quindi Dante si è inventato tutto?
«Certo. Descrive il Paradiso in un modo che ritengo grottesco. La sua è una visione onirica».

Dove sono finiti i grandi del giornalismo? Montanelli, Biagi, Bocca?
«Sono finiti sottoterra. Ci hanno lasciato qualcosa a livello di pensiero, ma non si sono più fatti vivi».

Pensa mai alla morte?
«Una volta al giorno, tutti i giorni. Non la temo; temo il morire. Ho paura del modo in cui arriverà. Vorrei evitare la sofferenza fisica. Il dolore fisico mi agita. Quando fui ricoverato per una prostatite acuta, che rischiava di diventare qualcosa di più grave, ero molto spaventato. Un giorno provò anche a entrare nella mia stanza dell'ospedale un frate. Lo fermai sulla porta: "Lasci perdere". Lui se ne andò ridendo».

E del Covid, ha paura?
«Il Covid è abbastanza terrorizzante, perché ti può condurre a una morte dolorosa. Soffocare è orrendo. Così cerco di prevenirlo. Non spero in Dio; preferisco fare attenzione. Credere è un fatto sentimentale. E io non credo».

È proprio così certo che Dio non ci sia?
«Beh, se esistesse almeno una telefonata me la avrebbe fatta. Non ho mai percepito la sua presenza. Se ci fosse perché dovrebbe nascondersi? Dovrebbe farsi vivo e spiegarci».

In che modo è diventato giornalista?
«Quando ero all'Eco di Bergamo ero già convinto che avrei fatto questo mestiere, ma ero solo un collaboratore. Decisi di provare a entrare a La Notte. Incontrai il direttore Nino Nutrizio nel suo ufficio a Milano. Cominciò a parlarmi per capire chi fossi, dandomi del voi. Quando venne fuori che collaboravo all'Eco commentò: "Siete stato in quel giornale per quasi quattro anni e non vi hanno ancora assunto. Questo mi fa venire il sospetto che siate un cretino"».

Finì così?
«No, mi congedò dicendomi che non fidandosi del giudizio degli altri mi avrebbe messo alla prova per novanta giorni».

Come andò quel periodo?
«Mi impegnai. Dopo un mese e mezzo, era l'antivigilia di Natale, a Bergamo venne uccisa a coltellate, nella sua casa, una prostituta. Andai subito sul luogo del delitto e vidi la figlia di quattro anni con una fetta di panettone in mano seduta vicino alla pozza di sangue della madre. Feci un pezzo cardiaco. L'indomani andai in edicola per vedere se il mio articolo era stato pubblicato. Sfogliai per prime le pagine della cronaca di Bergamo ma non lo trovai. Mi disperai, temevo mi avrebbero mandato via».

E così fu?
«No, perché girai il giornale e lo lessi dalla prima pagina. La mia cronaca era l'apertura, un titolo a nove colonne con la mia firma. Impazzii di gioia. Mi chiamò il direttore: "Caro Feltri, come avete capito il vostro pezzo è di nostro pieno gradimento. La prova finisce qui e lei è assunto in pianta stabile". Ero di una felicità indescrivibile».

Che rapporto ha con i suoi figli?
«Bello. Con la mia prima moglie, Marialuisa, ho avuto Laura Adele e Saba Laura. Lei partorì di notte e al mattino quando arrivai in ospedale un'infermiera mi venne incontro con due fagottini in braccio. Le chiesi quale fosse la mia. Mi rispose: "Tutte e due". Ebbi un mancamento. Mi fecero una iniezione e quando mi ripresi ero euforico. Avevo ventidue anni. Dopo poco tempo Marialuisa morì, per le complicazioni dovute al travaglio».

Ha cresciuto lei le gemelline?
«Ho fatto tutto quello che poteva fare un uomo da solo. Poi mi sono reso conto che era difficilissimo crescerle in autonomia, e le portai in un istituto dell'amministrazione provinciale dove si presero cura di loro».

Per quanto tempo sono rimaste lì?
«Non a lungo. Perché conobbi presto una ragazza, Enoe, che lavorava lì e che mi piacque da subito. La corteggiai e la sposai. Le sono molto grato per come si è presa cura di Laura e Saba».

Poi ha avuto Mattia, bravissimo direttore dell'Huffington Post, e Fiorenza, che gestisce una farmacia a Milano...
«Sono cresciuti tutti e quattro in simbiosi. Hanno dato vita a una sorta di clan che è diventato una comunità quando abbiamo preso in adozione Paolo».

Ha anche un figlio adottivo?
«Sì. Era rimasto senza padre da piccolo e la madre non poteva seguirlo. Senza tante storie lo abbiamo accolto nella cascina con gli animali dove abitavamo, ed è cresciuto sereno insieme agli altri. Oggi lavora a Sky. Viene molto spesso a cena da me».

Cosa pensa di papa Francesco?
«Che fa il suo mestiere e non mi permetto di intromettermi. Non ho un grande trasporto per lui. Conosco il cardinale Becciu, una persona seria, e mi è molto dispiaciuto per la vicenda nella quale è stato coinvolto. L'ho difeso finché ho potuto».

La considerano un maschilista, ma è tutta l'intervista che parliamo di donne, oltre che di preti...
«Ma quale maschilista? Sono stato allevato dalle donne. Ho scoperto che sono più brave, intelligenti, tenaci, capaci di gestire meglio la vita. Ad esempio ho solo dottoresse femmine. Sono più sensibili, tenaci e di loro mi fido di più».

È per le quota rosa allora?
«No. Sul lavoro si scelgono le persone sulla base delle loro capacità, non per il loro sesso. Istintivamente però preferisco le donne. E poi mi piacciono di più. Meglio stare con loro a cena. Gli uomini mi parlano solo di calcio e stipendi».

Non c'è nessuno che vorrebbe intervistare?
«Uno ci sarebbe: Dio».

Quali domande gli farebbe?
«Una sola: perché tutto 'sto casino? Chi te l'ha fatto fare?».

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