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Giancarlo Giorgetti, "un vice premier ufficioso": retroscena sul perché Matteo Salvini ha scelto lui

Alessandro Giuli
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Dopo un anno di sortite pubbliche improvvise e di radi vaticini oracolari dall'opposizione, Giancarlo Giorgetti è tornato a fare ciò che predilige e gli riesce meglio: tacere. Ma è tutt' altro che inoperoso: occupa finalmente una ribalta ministeriale di rango, allo Sviluppo economico nel governo di Mario Draghi, ma nella realtà è molto di più: come un vice premier ufficioso, occupa l'emisfero politico di un solo cervello al comando dell'Italia; essendo l'altra metà, quella tecnica, appannaggio dell'insigne euro-banchiere romano. Tutto ciò a vent' anni esatti dal primo incarico importante che risale al 2001, quando fu presidente della commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione di Montecitorio (con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi). Ha gli occhi puntati addosso, naturalmente, poiché di questo governissimo è stato il paziente costruttore e, diciamo così, l'ostetrico principale; ma soprattutto perché questa volta è lui al centro della scena e non Matteo Salvini, con il quale però concerta ogni mossa (la battaglia sul condono per le cartelle esattoriali l'hanno condotta all'unisono, a dispetto delle pigre ricostruzioni giornalistiche).

Dopo un anno e mezzo di sofferta opposizione ai giallorossi, il segretario della Lega ha lasciato che il suo vice gestisse la delicatissima pratica del ritorno al potere, sapendo che per completare l'opera bisognava trattare con gli ex nemici di un tempo, ovvero l'establishment euroatlantico di cui Draghi da Roma è espressione massima e figura di garanzia internazionale. Giorgetti ha preteso e ottenuto fiducia sulla base di un requisito elementare: lui dà del tu a Draghi da tempi non sospetti, in un rapporto di consuetudine che rasenta l'amicizia e ha trovato rappresentazione plastica nella complicità con la quale GG è stato immortalato mentre, nel giorno della fiducia a Montecitorio, mostrava al premier il proprio telefonino su cui appariva la schermata di Dagospia con l'endorsement di Umberto Bossi all'ex presidente della Bce. In un colpo solo, agli occhi non cisposi di chi conosca la materia leghista, la nuda verità si è disvelata nel piccolo capolavoro comunicativo: dal fondatore al leader in carica passando per il vice plenipotenziario, l'ultimo partito leninista rimasto in Italia ha deciso di uscire dal Papeete per rientrare ordinatamente nel sistema. E questo è il presupposto politico di ogni ragionamento intorno a Giorgetti, che è appunto leghista in ogni fibra del suo essere e interpreta alla perfezione le liturgie di via Bellerio impermeabili al cono di luce dei media. Lì, quando ci si riunisce nella sala delle conferenze stampa, il segretario siede da solo al grande tavolo mentre gli altri - dirigenti federali, rappresentanti delle Regioni e dei dipartimenti - partecipano davanti a lui e sanno che l'ultima parola spetta sempre al capo.

Può accadere che Giorgetti stia seduto perfino all'ultimo banco, laddove l'alfa e l'omega del partito si traguardano a distanza, a dimostrazione che nella Lega dalla segreteria in giù sono tutti numeri due. E GG interpreta la parte proprio così, in omaggio alla prevalenza di un numero due che non ha alcuna voglia o interesse a soddisfare chi lo vorrebbe al posto di Salvini. Fedele al partito e più ancora al suo territorio di riferimento (il Nord in ogni sua variante, spesso quella strapaesana) e al metodo novecentesco di guadagnarsi e mantenere il consenso attraverso militanti e amministratori che stanno lì da una vita e condizionano la comune direzione di marcia. Da Luca Zaia al sindaco di Cazzago Brabbia, dove Giorgetti è nato e ha esercitato per quasi un decennio la funzione di primo cittadino.

 

 

 

Certo adesso dal Mise la prospettiva è diversa, essendo lui pure il numero due di Draghi e avendo ereditato un'infinità di crisi imprenditoriali da gestire. Prima che l'esecutivo prendesse il largo, il Pd ha tentato di svuotargli le deleghe sul nascere ma non ci è riuscito e oggi si lamenta per come lui si nega ai tavoli sindacali preferendo gettarsi a capofitto nello studio dei dossier. Altro stile, il suo, ben visibile nella lettera inviata al presidente campano De Luca che esigeva spiegazioni sul caso Whirpool: «Caro Vincenzo, ti informo che sto seguendo personalmente la situazione cercando di dare concretezza a una possibile soluzione. Siccome sono abituato a parlare con i fatti, ti posso assicurare che non appena ci sarà un segnale tangibile provvederò a dartene notizia e a convocare il tavolo di crisi». È un po' la stessa frase rivolta a chi, agli sgoccioli del governo Conte, lo sollecitava ad assumere un'iniziativa pubblica grancoalizionista: «Non parlo ma agisco».

Così ha fatto, per poi ritirarsi sul lago di Varese fino alla chiamata dell'ultimo secondo da parte del premier appena incaricato dal Colle. A proposito, per comprendere il valore dell'operazione Draghi è bene rammentare l'antica consuetudine di Giorgetti con il Quirinale: dopo le elezioni del 2013 fu nominato da Giorgio Napolitano nella commissione dei dieci saggi da cui sarebbe nato il governo di Enrico Letta; nel 2018 è stato il garante con Sergio Mattarella dell'esperimento gialloverde, mediando con i grillini di Luigi Di Maio e diventando il beniamino della rassegna versiliana organizzata dal Fatto Quotidiano; e adesso sempre lì sta, al centro d'una rete di relazioni politiche e finanziarie senza le quali si è costretti a studiare dall'opposizione rinunciando alle leve dello Stato.

E una volta che lo Stato te lo riprendi in mano, secondo Giorgetti il minimo che tu possa fare è proteggerne gli organi vitali che sono i ceti produttivi, le manifatture e il tessuto industriale. Non è soltanto una questione di golden power, di cui il Mise sta potenziando la gittata, è una questione di logica imprenditoriale: quando il cittadino medio italiano si accomoda sulla sua automobile di marca per lo più tedesca, il ministro dello Sviluppo si ricorda che nella componentistica di quella automobile c'è tutta la geografia della Padania operosa. Di qui la strategia conseguente, il voler ricondurre la Lega allo slogan primigenio: più lontani da Roma più vicini all'Europa; perché se ha un senso attaccare le burocrazie europee o certe piccole furbizie della Merkel, ne ha molto meno fare una guerra cieca al primo partner industriale italiano. Alla Germania. Senza contare che per Giorgetti non esiste romanticismo in politica così come non c'è sovranismo credibile, che non sia vana esercitazione retorica, in assenza di sovranità. E chi te la conferisce questa sovranità? Citofonare a Washington.

 

 

 

 

GG gode di buona stampa perfino in Germania e vanta buoni rapporti nelle cancellerie europee (dopo averlo incontrato, il ministro francese dell'Economia Bruno Le Maire è tornato a Parigi con degli appunti molto favorevoli su di lui) ma la sua missione principale sta nella sponda occidentale dell'Atlantico, negli Stati Uniti, laddove le rendite di credibilità possono sbriciolarsi nella confusione tra il libero dialogo e la confusa subalternità rispetto agli interessi di Mosca o Pechino; laddove il gruppo di Visegrad è visto come un trascurabile puntino nella mappa strategica europea; laddove il Deep State non consente nemmeno agli outsider come Donald Trump di scantonare troppo dai binari, figurarsi ai provinciali che s' improvvisano sindacalisti putiniani. Ma su questo, in casa Lega, garantisce appunto Giorgetti e con tali credenziali pochissimi dentro e fuori dal suo perimetro lo sfideranno a cielo aperto.

A Roma ha giusto un nemico pesante nella persona di Giovanni Malagò, che non gli ha perdonato l'esercizio volitivo delle deleghe allo Sport detenute nel primo governo Conte; ma a stemperare il clima capitolino c'è il sempre affettuoso Gianni Letta, che conosce la lingua del potere e vede rispecchiarsi nel bocconiano GG una silente e familiare capacità di movimento negli interstizi del potere. Dopotutto, con il governo Draghi esordisce in prima fila anche la categoria dei ministri giorgettiani, come il titolare del Turismo Massimo Garavaglia, mentre il salvinismo s' è trattenuto sulle seconde linee dei sottosegretari. E qui torniamo al solito bivio: che farà Giorgetti, ora che potrebbe anche strafare? Nulla di che. Rassegnatevi. Se glielo chiedete direttamente, vi risponderà così: «Vedo poca gente, studio e convoco tecnici, cerco di uscirne vivo».

Nel frattempo continuerà a essere un punto di riferimento a Roma per il blocco storico nordista che vuole tutelare le proprie posizioni amministrative e politiche (compresi i democratici alla Stefano Bonaccini e i pentastellati coltivati alla Stefano Buffagni), difenderà quel patriottismo liberale, olivettiano e federalista al quale s' è abbeverato dai tempi del Prof. Miglio, medierà con gli alleati di centrodestra (c'è stima reciproca con Giorgia Meloni). E non appena possibile tornerà a rifugiarsi nel suo invisibile altrove, convinto com' è che il narcisismo sia la debolezza caratteristica delle leadership politiche contemporanee (ricordate la fotina di Renzi donata ai neoparlamentari come un memento mori?). Muto stratega d'ogni transizione leghista, Giorgetti preferisce l'immobilità all'agitazione ed è irremovibile (anche a livelli masochistici) sul concetto di lealtà al capo partito e al suo via libera. Pur di non tradire, o peggio ancora disturbare, opterebbe per l'esilio volontario. Ovviamente al lago.

 

 

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