Coronavirus, l'Italia supera le 10omila vittime di Covid: è nostro questo terribile record europeo
Centomila morti. Precisamente 100mila 103. La prima vittima ufficiale, poco più di un anno fa - impossibile dimenticare quel maledetto 21 febbraio - è stato Adriano Trevisan, 77 anni. Abitava a Vo' Euganeo, nel Padovano, il primo focolaio italiano con quello di Codogno, comune del Lodigiano. Trevisan, a lungo titolare di un'azienda edile, era stato ricoverato all'ospedale di Schiavonia 9 giorni prima con febbre e tosse. 21 febbraio 2020: da allora tutto sarebbe cambiato. Il silenzio spettrale del lockdown squarciato dalle sirene delle ambulanze. Le immagini dei camion militari con le bare. La speranza di risvegliarsi in fretta dall'incubo.
I canti dal balcone, gli «andrà tutto bene», i «ce la faremo». Poi l'estate: uno squarcio di normalità. Appunto: è stato un attimo. Centomila morti: ieri l'Italia ha superato la drammatica soglia. Siamo stati i primi tra i Paesi Ue. Siamo stati anche i primi a imbatterci nel virus, è vero. Altre nazioni, nella fase iniziale della pandemia, hanno avuto qualche settimana in più per prendere le contromisure. Ma il fatto che la Germania (23 milioni di abitanti in più di noi) conti circa 30mila decessi in meno legati al Covid e la Francia (7 milioni di abitanti in più) 10mila la dice lunga sulla nostra lotta al virus. Siamo stati i primi bersagliati dal Covid, ma nel continente continuiamo a essere quelli col numero maggiore di decessi giornalieri, 318 nelle ultime 24 ore. Nel mondo, dall'inizio della pandemia, ne piangono di più soltanto gli Stati Uniti, il Brasile, il Messico, l'India e il Regno Unito. Ma ieri gli Stati Uniti hanno registrato 116 vittime, tre volte meno di noi, e gli Stati Uniti hanno 5 volte i nostri abitanti. È del tutto evidente che ogni possibile tentativo di giustificare o mascherare l'ecatombe di casa nostra non sta in piedi.
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Entriamo (purtroppo) nel dettaglio. La regione italiana con più decessi, numero ovviamente influenzato dalla popolazione, è la Lombardia (ieri altri 52), che in ogni caso fino all'estate aveva il tasso maggiore per ogni 100mila abitanti. Seguono l'Emilia Romagna, il Veneto, il Piemonte e il Lazio. Percentualmente la più falcidiata è la Valle d'Aosta (417 in totale le vittime), la quale però ha migliorato i dati (compresi quelli dei contagi e dei ricoveri) da quando ha iniziato a somministrare tutti i vaccini a disposizione senza pensare ai richiami, secondo il modello inglese e scozzese.
Stando alla tabella dell'Istituto superiore di sanità (l'ultimo aggiornamento risale al primo marzo), la Lombardia conta il 29,2% dei decessi nazionali, l'Emilia Romagna l'11, il Veneto il 10,2, il Piemonte l'8,6 e il Lazio il 6,1. Però dalla prima alla terza ondata, quella in corso, le percentuali cambiano drasticamente. Tra marzo e maggio 2020 la Lombardia sommava il 47,7% dei morti totali e oggi il 18,6. Il Veneto è passato dal 5,7 al 12,7, la Campania dall'1,4 al 6,4. Gli incrementi maggiori si sono verificati in Sicilia (dallo 0,9 al 6,5) e in Lazio (dal 2,5 all'8). Anche l'età media delle vittime è cambiata nel tempo. La terza settimana di febbraio 2020 era di 75,5. La seconda di marzo (sempre dell'anno scorso) 80,5, quasi identica a oggi, ma la prima settimana di luglio era molto più elevata (85). Il rapporto tra i decessi degli uomini e delle donne è di 60 a 40. La differenza si azzera se si prendono in esame i decessi di persone nella fascia d'età (0-29), però statisticamente irrilevanti, dato che (sempre in base ai dati del primo marzo) sono stati 71. I morti con meno di 50 anni sono l'un per cento.
In generale il 66,5% di chi non ce l'ha fatta a superare la malattia aveva tre o più patologie gravi pregresse, nella stragrande maggioranza dei casi ipertensione arteriosa. Subito dopo hanno inciso pressoché allo stesso modo cardiopatia e diabete. Nelle donne la demenza ha inciso il doppio rispetto agli uomini. Soltanto il 3% dei positivi sopraffatti dal morbo non aveva seri problemi di salute. Complessivamente, il 90,4% delle persone decedute era stato ricoverato in ospedale con sintomi riconducibili al Covid. Nella prima ondata il picco dei deceduti in un giorno è stato raggiunto il 27 marzo (969 vittime). Il 3 dicembre è stato il giorno più tragico: 993. Il 9 marzo 2020, data dell'inizio del lockdown, i decessi erano stati 97. Due giorni dopo l'Organizzazione mondiale della sanità, la quale in poco tempo si sarebbe dimostrata del tutto impreparata nonostante ciò che stava succedendo da mesi a Wuhan, ha dichiarato la pandemia.
Lo ricordavamo prima: ad agosto sembrava tutto finito, il giorno 29 una sola vittima, ma il segnale inequivocabile che stava ricominciando l'incubo è arrivato il 15 ottobre, quando il numero di decessi (83) ha doppiato quello del giorno precedente. Di lì a poco nuovamente restrizioni e Italia divisa in colori a seconda del tasso di contagio. Il 20 dicembre il primo caso ufficiale di variante inglese riscontrato nel Paese. La settimana dopo il via ai vaccini, inizialmente a un ritmo accettabile poi non più. 100mila morti significa che da noi il tasso di letalità, ossia il numero delle vittime rispetto ai contagiati, viaggia al 3,25%, come in Grecia, solo pochi decimali meglio di Ungheria e Bulgaria.
In Usa la percentuale è dell'1,8. Tra la prima e la seconda ondata la percentuale dei ricoveri in terapia intensiva è scesa dal 10,6 al 9,3, probabilmente grazie al miglioramento delle cure e alla maggior attenzione da parte di tutti noi, e però non è stato sufficiente a diminuire i lutti. Il tributo maggiore l'hanno pagato le province di Bergamo e Brescia. Quest' ultima, notizia di ieri, ha già occupato nuovamente il 90% dei posti letto in rianimazione. «Perché guariremo», titolava il libro subito ritirato del ministro della Salute Speranza. Dovrebbe piuttosto spiegarci perché continuiamo a morire più di tutti.