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Domenico Arcuri, il retroscena di Pietro Senaldi: mascherine e inchieste, cosa c'è dietro la cacciata a tempo record

Pietro Senaldi
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 Tanto longevo come amministratore delegato di Invitalia, l'agenzia pubblica per lo sviluppo economico, quanto transitorio nei panni di commissario straordinario all'epidemia. Mario Draghi ci ha impiegato poco a rimuovere Domenico Arcuri dalla poltrona sulla quale lo aveva insediato Giuseppe Conte, il 27 marzo scorso. Era nelle cose che il manager calabrese non riuscisse a mantenere l'incarico ma ci si aspettava che il suo avvicendamento non sarebbe stato traumatico e che il premier avrebbe atteso la scadenza annuale del mandato.

Invece no, don Mimmo è stato accompagnato alla porta a tempo di record. A uno a uno, e senza parole inutili, l'ex presidente della Banca Centrale Europea si sta liberando della variopinta corte di Conte e Casalino. E siccome siamo in tempi di guerra, si ricorre all'esercito. Così il generale Francesco Paolo Figliuolo, già comandante sul campo in Afghanistan e Kosovo sostituisce Arcuri. D'altronde, le Forze Armate rappresentano a livello di organizzazione, disciplina, efficienza e logistica quanto di meglio ha lo Stato. Il commissario licenziato non era oggettivamente difendibile neppure da un premier forte come Draghi. Matteo Salvini, che già ha dovuto digerire le conferme di Lamorgese e Speranza, ne aveva chiesto insistentemente la testa. E così aveva fatto Matteo Renzi, fin dai tempi del governo Conte. L'uomo che per quindici anni ha mantenuto la poltrona sulla quale lo aveva inchiodato Prodi, attraversando governi tecnici, di destra, di sinistra e pure grillini, non è riuscito a superare l'esame dell'alleanza più vasta della storia della Repubblica.

 

 

 

Troppi nemici gli avevano creato il feeling con Conte e gli attestati di stima di Zingaretti, Bettini e i grillini; ma anche il solido rapporto con D'Alema. Al di là dei mutati equilibri politici, Arcuri paga il conto dei propri errori e di una gestione ambigua e supponente dell'epidemia, oltre che il disastro dei vaccini. Non è colpa sua se l'Italia non ha le dosi sufficienti per immunizzare 13 milioni di cittadini entro marzo, come aveva promesso il governo. Le responsabilità sono dell'Europa, che ha sbagliato i contratti con le case farmaceutiche produttrici, e del nostro esecutivo, che si è fidato e non ha vigilato. Però è il commissario la causa del fatto che non abbiamo un piano di profilassi e ancora oggi non si sa precisamente chi, dove e quando farà le iniezioni allorché arriverà un numero di dosi adeguato.

Ed è sempre da addebitare al manager pubblico se l'Italia ha la minor percentuale di ottantenni vaccinati della Ue ma il maggior numero di furbetti che hanno ricevuto l'iniezione senza averne diritto. È stato sacrosanto immunizzare prima di tutti i medici e gli infermieri, per il resto non c'è stato un protocollo che stabilisse le priorità. Non una linea guida nazionale sui vaccini, con le Regioni libere di scegliere i criteri. Vincere l'iniezione è un terno al lotto. Un po' di ottuagenari, certe forze dell'ordine, qualche burocrate, alcuni professori: abbiamo la profilassi a macchia di leopardo; non una categoria è stata messa in sicurezza e gli anziani, che costituiscono il 95% dei decessi per Covid, si sono visti sorpassare da tutti.

 

 

Arcuri si è concentrato sulla forma anziché sulla sostanza, come se la lotta la virus fosse un one-man-show. Ha inflitto alla ministra Azzolina i banchi a rotelle, che le sono costati il posto e non hanno salvato la scuola da contagi e chiusure. Poi ha chiamato l'archistar Stefano Boeri per disegnare le Primule, le strutture dove tutti gli italiani avrebbero dovuto vaccinarsi. Il commissario ne voleva tremila, al prezzo di 400mila euro l'una, che ha provato a mettere a carico di sponsor e cittadini donatori, da premiare con una sua lettera di ringraziamento autografata, Draghi glieli ha bocciati tutti e se alla fine se ne faranno una dozzina sarà già tanto.

A pesare è stata anche l'inchiesta sulle mascherine. Arcuri le ha comprate in fretta, in piena emergenza, affidandosi a intermediari non professionisti ora indagati per traffico di influenze. Le ha pagate, con i soldi dei contribuenti, tre volte il loro valore; il che, se non è un reato, non può essere neppure un vanto. Anziché dire «ho sbagliato», il commissario ha infilato una serie di dichiarazioni equivoche che ne hanno complicato la situazione e sporcato l'immagine. Così Draghi ha trovato quanto mai provvidenziali le pressioni altrui per liquidarlo, e lo ha fatto. 

 

 

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