Vaccino, le colpe dell'Europa e della magistratura: ecco perché l'Italia è in ginocchio
La nascita del governo Draghi certifica in via definitiva che in Italia l'autonomia della politica è entrata in una crisi a tal segno profonda da compromettere significativamente le fragili basi del nostro sistema democratico. D'altro canto, era prevedibile che ciò accadesse dopo decenni in cui la titolarità della decisione pubblica è stata progressivamente tolta allo Stato territoriale - riducendo le classi dirigenti nazionali a puri esecutori - per affidarla ad organi sovranazionali caratterizzati da un tasso di rappresentatività a dir poco discutibile. In tal senso, al netto delle polemiche sovraniste, chiunque sia dotato di un minimo di onestà intellettuale non può non riconoscere una realtà di fatto, ovvero che la crescita dei poteri in capo all'Unione europea comporta l'affermazione di ciò che i sociologi chiamano "regime politico globale" in cui le leadership dei singoli Paesi si rivelano via via sempre più deboli e smarrite. Poiché in democrazia, come recitano i testi classici, «la politica consiste nella facoltà di potere scegliere circa gli impieghi alternativi tra le limitate risorse disponibili» risulta difficile sostenere che la cessione di sovranità a favore di Bruxelles non coincida con una riduzione della discrezionalità nazionale e che ciò non si rifletta nei processi di formazione delle élite politiche.
Un altro mutamento che ha contribuito al drastico ridimensionamento dello spazio politico è rappresentato dalla dilatazione delle "funzioni della giustizia", in Italia abnormemente accentuate rispetto alle esperienze di altre democrazie occidentali. Una chiara descrizione di ciò che stiamo dicendo viene fornita da due storici del diritto, Tate e Valinder, quando parlano di "giudiziarizzazione della vita pubblica" per definire come «l'espansione del raggio d'azione dei tribunali e dei giudici a scapito dei legislatori determina lo spostamento delle competenze decisionali dal legislativo e dall'esecutivo verso le stanze dei tribunali». Una tale rivoluzione nell'equilibrio dei poteri è il risultato finale di una crisi che ha colpito negli ultimi decenni le autorità politiche e sociali del nostro Paese al punto da renderle impotenti, come rileva il sociologo Alessandro Pizzorno, «sia nell'emanare norme che a farle rispettare fino ad arrivare a una vera e propria resa dell'autorità nei confronti del diritto».
La perdita di sovranità accanto all'invasione di campo della giurisdizione rendono ragione della crescente marginalizzazione del ceto politico del nostro Paese e della progressiva politicizzazione di quei poteri dello Stato che dovrebbero essere neutrali per definizione, ovvero la magistratura e la presidenza della Repubblica. Che fare, per dipanare nodi di tale fattura? Vengono in mente le parole di Montanelli quando nel maggio '91, vaticinò che difficilmente l'establishment italiano sarebbe stato in grado di portare a termine le riforme istituzionali ritenute necessarie, per l'assenza nel nostro Paese dei presupposti che consentirono alla Francia di lasciarsi alle spalle il fallimento della Quarta Repubblica e passare in soli quattro anni alla solidità della Quinta. Per Montanelli la condizione principale che consentì quel cambiamento fu data dalla presenza di «una potente autorità di riserva quale Charles De Gaulle». Autorità che ancora oggi, non ce ne voglia il presidente Draghi, è difficile intravedere in Italia.