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Pietro Senaldi su Matteo Salvini: "L'uomo al posto chiave al Viminale", perché la Lega sconfigge il Pd di Zingaretti

 Pietro Senaldi

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Per una volta tocca dare ragione al povero Nicola Zingaretti, mai profeta in patria ma che sull'ingresso di Matteo Salvini nel governo, dopo aver ingerito chili di Maalox aveva detto una cosa giusta. «Noi e la Lega restiamo alternativi» sentenziò il leader (?) del Pd, aggiungendo che non poneva veti, ma comunque al Viminale non avrebbe mai potuto andarci un leghista, neppure come sottosegretario. All'indomani della partita delle nomine dei vice dell'esecutivo Draghi, il capo del Carroccio si ritrova con il fedelissimo Nicola Molteni all'Interno, nella stessa posizione che occupava quando il ministro era lui, impazzava il decreto sicurezza e gli immigrati restavano sui barconi settimane senza il permesso di scendere a terra. Al segretario dem invece è restato in mano un pugno di mosche, il Pd è stato completamente escluso dalla gestione governativa dei flussi migratori.

Matteo ha umiliato Nicola sia nei numeri (9 a 6) sia nel peso degli incarichi di sottogoverno. Dopo l'ufficializzazione dei ministri la stampa d'area giallorossa, cioè quasi tutta, si era divertita a provocare il numero uno della Lega, sostenendo che SuperMario aveva scelto tre uomini a lui sgraditi, l'europeista amico dei poteri forti Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo Economico, il suo supposto sodale Massimo Garavaglia al Turismo ed Erica Stefani, fedelissima del governatore veneto Luca Zaia, alle Disabilità. I nove sottosegretari espressi dal Carroccio sembrano fatti apposta per contraddire chi già aveva intonato il de profundis per l'ex ministro dell'Interno, che ha applicato il teorema Molteni a tutte le poltrone in gioco. A cominciare dall'unico viceministro del gruppo, Alessandro Morelli, alle Infrastrutture.

 

 

 

Promozione strameritata, che però scuote il Palazzo neanche fosse la nomina del cavallo di Caligola a senatore, data la mediaticità che da sempre distingue l'ex direttore di Radio Pandania. Non è il solo sassolino dalla scarpa che Matteo si è tolto rispetto al Pd e neppure l'unico messaggio che il leader ha indirizzato a chi si illudeva che, ora che c'è Draghi, per vedersela con la Lega sarebbe stato sufficiente mettersi d'accordo con Giorgetti. Pesantissime sono anche le nomine al ministero dell'Economia del laziale Claudio Durigon, il numero uno della Lega nel Centro Italia, già vice al Lavoro nel primo Conte nonché l'uomo che ha realizzato quota 100, e di Lucia Borgonzoni alla Cultura. Il primo riequilibra a favore del Capitano la squadra economica del governo, la seconda, emiliana come Dario Franceschini, è segno che Salvini vuol far sentire la sua voce anche in ambiti solitamente appannaggio della sinistra.

L'intenzione della Lega di marcare a uomo il Pd e non consentirgli di intestarsi nulla dell'azione di governo è sottolineata dal fatto che tutti i ministri dem sono marcati a uomo. Al Welfare, Andrea Orlando si trova alle costole la senatrice Tiziana Nisini, nota alle cronache per aver definito «un disastro» il reddito di cittadinanza e i navigator. Alla Difesa, accanto a Lorenzo Guerini, Matteo ha invece piazzato Stefania Pucciarelli, che non ha mai lesinato peana alle ruspe che spianavano i campi rom ed è una fautrice delle case popolari prima agli italiani.

 

 

 

Completano la squadra Gianmarco Centinaio all'Agricoltura, già capogruppo in Senato e con Molteni l'unico parlamentare che condivide con il capo l'ufficio romano di Piazza Luigi dei Francesi, Rossano Sasso all'Istruzione, onorevole barese, che ha fatto della lotta agli immigrati la propria ragione politica, e Vannia Gava, in Lega dal 1994, che torna all'Ambiente, come nel Conte gialloverde.

Salvini è noto tifoso milanista sfegatato, ma le sue scelte di sottogoverno ricordano l'orgoglio ostentato da Lukaku domenica scorsa dopo aver segnato nel derby, quando si è rivolto ad avversari e compagni di squadra battendosi il petto con il pugno mentre urlava «Sono io, sono io il numero uno». Non che Matteo possa permettersi di essere insensibile ai condizionamenti esterni. Nelle 36 ore che hanno preceduto l'adesione della Lega al governo Draghi, il Capitano ha cambiato linea quattro volte, passando dal no all'ex governatore al sì ma senza M5S al non metto veti fino all'io ci sto e noi stiamo con l'Europa. Una decisione convinta ma anche indispensabile. Opportuna per rinsaldare il partito intorno alla propria leadership, senza fughe in avanti dal territorio. Indifferibile per non deludere l'elettorato principale di riferimento, al quale va bene Draghi e che vede nell'interazione economica con l'Europa e nell'essere al tavolo che gestirà gli aiuti del Recovery Fund un passaggio indispensabile per tentare la ripresa.

 

 

 

Il punto è che Salvini può far girare la barca in direzioni anche confliggenti fra loro perché, malgrado il periodo prima di entrare nel governo non fosse dei migliori, ha il partito in pugno. Lo squinternato Zingaretti invece non conta nulla. Un anno e mezzo fa voleva andare a votare e si è ridotto a governare con i grillini, con i quali sosteneva che non si sarebbe mai alleato. Ora voleva conservare il posto a Conte ma si è fatto imporre Draghi, mentre avrebbe potuto intestarselo. Persa la guerra, ha cercato di fare il ministro ma è stato sconfitto anche in questa battaglia, mentre la sua proposta di organizzare con M5S un ufficio di gabinetto interno al governo è naufragata tra le risa generali. L'uomo si è ridotto a solidarizzare con Barbara D'Urso per la chiusura del suo programma, devoto e riconoscente alla signora di Canale 5, che ha avuto la cortesia di invitarlo una volta in trasmissione, dopo aver ospitato Salvini dieci volte di più.

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