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Mario Draghi e il secondo giro di messa cantata alla Camera: "Una faccenda terribilmente noiosa"

Alessandro Giuli
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Al secondo giorno di messa cantata in Parlamento la faccenda si preannunciava terribilmente noiosa. Sicché lo stesso presidente del Consiglio, prima di ricevere la fiducia anche a Montecitorio, si è risparmiato di officiare il bis del discorso programmatico letto in Senato. Come Niccolò Paganini, ma più per pietà che per superbia, Mario Draghi "non ripete" e, come giustamente ammesso (...) dal leghista Claudio Borghi, in cambio della fiducia scontata si è autocostretto ad ascoltare le chiacchiere degli onorevoli per parecchie ore Interminabili ore con dichiarazioni fotocopia intorno a un testo già vidimato, con una punta di curiosità per la replica del premier che si è limitato alla conferma protocollare dell'impegno in materia di trasparenza, semplificazione, legalità, giusto processo e difesa delle imprese nazionali competitive. A variare il timbro di una pletorica maggioranza è giunto il guizzo serale di Giorgia Meloni in occasione delle dichiarazioni di voto. Preceduta dagli interventi cursori dei suoi deputati di Fratelli d'Italia, la leader dell'opposizione solitaria ha spezzato una monotonia altrimenti insostenibile, attaccando Draghi sui punti deboli della sua maggioranza: l'eccessiva continuità con il passato recente, la scarsa promozione delle donne, l'età media ministeriale troppo alta per fidarsi a occhi chiusi delle promesse giovaniliste.

 

 

Giorgia si è anche tolta lo sfizio di pungolare gli alleati finiti «in minoranza nella maggioranza» e, senza citarlo, il presidente Mattarella che mantiene il Pd al potere malgrado perda ogni elezione. Che qualcuno rimanga all'opposizione, come dice lei, alla fine fa comodo a tutti affinché l'Italia non diventi la Corea del Nord. Circa il resto, nulla d'imprevisto o irragionevole, figurarsi: sotto il paziente sguardo gesuitico di Draghi si sono alternati proclami di gratitudine sconfinata, sdolcinati propositi, servi encomi e fintissime minacce di "fare le pulci" o perfino far mancare (strada facendo) il proprio sostegno a un governo vissuto dai più come una polizza d'assicurazione sullo stipendio. A seconda dei cantori e della loro provenienza partitica, i toni si alzavano nella rivendicazione idolatrica di un mariodraghismo originario o si abbassavano gravi nell'esibizione di una sofferta adesione alla ragion pratica. Ciascuno ha legittimamente stiracchiato i temi di bottega, impettito o dimesso, escludendo di firmare cambiali in bianco e intestandosi un pezzo delle riforme promesse dal banchiere di Palazzo Chigi. Il Movimento Cinque stelle, o meglio quel che ne resta fra le coltellate della guerra fratricida in corso, ha toccato vette di tenerezza quasi imbarazzanti giurandosi fedele «con la lealtà che ci contraddistingue».

ARALDI DELLE LARGHE INTESE
Molto più credibili, in questo ritorno dell'identico déjà-vu, Forza Italia e Italia Viva nel ruolo di partiti-araldi delle larghe intese intorno al tecnocrate, ma in fondo anche la Lega post sovranista col tentativo d'ipotecare la sensibilità di Draghi nel "voltare pagina" rispetto al governo Conte in materia di Dpcm, tasse e sviluppo. Il guaio è che poi ci sono gli altri grillini a declamare la versione superstiziosa e sindacalizzata del conformismo ambientalista (genere o idrogeno o morte) epperò, badate bene, «ci stiamo a governare anche con chi non vorremmo».

 

 

Che poi è la ragione sociale del Partito democratico, ammanettato alla nostalgia per l'avvocato di Volturara Appula, maldisposto a farsi confondere con l'odiato alleato salviniano ma di fatto disponibile a ogni incrocio pur di tirare avanti. Altro grande protagonista di giornata, dilatato fino alla deformazione, è stato il cosiddetto "interesse nazionale": espressione della fatica tattica dei partiti e formula totemica per coprire ogni riposizionamento; è questo il rumore di fondo d'una ricreazione politica terminata la quale resterà, al centro di una scena finalmente snebbiata, il muto enigma del vero signore nello stato d'eccezione. Proprio così. Quando si sarà dileguata l'eco dei salmi parlamentari intonati dalla turba degli aspiranti sottosegretari ieri protagonisti - «sobrietà, eleganza, endorfine dell'autorevolezza!» esultava l'azzurro Francesco Paolo Sisto prima di tornare in sé grazie alla «bussola della Costituzione», guadagnandosi nondimeno una menzione speciale - si accorgeranno tutti che la centralità della politica, in queste condizioni, è più che altro un'insperata allucinazione. Quanto ai titoli di coda della seconda messa cantata, facciamoci bastare quelli del giornale unico della falsa coscienza collettiva riunita intorno ai medesimi aggettivi dispensati ogni giorno: formidabile, impeccabile, silenzioso, autorevole, salvifico e via banalizzando in attesa di un liberatorio "che noia e che barba", magari pronunciato dallo stesso Draghi. 

 

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