Bruno Vespa si confessa a Libero: "Ora fate attenzione a Giorgia Meloni. Enrico Mentana? L'avversario più duro"
Bruno Vespa è il giornalista inespugnabile, l'Adenauer della cronaca politica; emana una pungente fragranza d'eternità. La sua ombra professionale mi accompagna da quando facevo le elementari. I miei figli, piccoli, sono talmente abituati a sentirlo, la sera, in sottofondo, che l'altro giorno incappando in Via col vento mi fanno: «Guarda, papà, in questo film hanno messo la sigla di Porta a porta». Per dire, che scherzi gioca l'immaginario collettivo. Sicché è normale, caro Bruno Vespa, che ora che Porta a porta, "la terza Camera" compie un quarto di secolo, si tracci un minimo di bilancio.
Pensavi, onestamente, che saresti arrivato fin qui?
«Onestamente no. All'inizio pensavano che durassi da gennaio a giugno. Lo pensavo anch' io. Anche perché, allora, andava di moda Samarcanda di Santoro, la politica urlata delle piazze, non si credeva ad un programma più "educato"».
Il modello erano i talk americani?
«No, il modello ero io. Gli americani sono più confidenziali. Ti immagini cosa succederebbe se, in studio, come loro, mi mettessi ad abbracciare il primo ministro?».
Veramente non fatico a immaginarlo. Facciamo un po' d'Amarcord. La prima puntata di Porta a porta risale al 22 gennaio 96, primo ospite fu Romano Prodi leader del centrosinistra candidato premier. Successe subito un casino con quella storia delle larghe intese fallite
«Con ordine. Accade che incautamente mi dimisi dalla Rai. Era il febbraio del 93, dovevo fare contrattualmente una prima serata di informazione su Raiuno, ma mi misero nel congelatore. Poi -ricordo che stavo a Palermo per il maxiprocesso- in tv annunciarono una seconda serata dal lunedì al venerdì con Carmen Lasorella, finì che diedero 3 serate a Carmen e 2 a me».
Ma tu partisti col botto.
«Diciamo mi sono accorto della nostra rilevanza dalle prime due puntate. Il 22 gennaio, quando, appunto, avevo ospite Prodi, aspirante premier e due giorni dopo saltò l'accordo D'Alema/Berlusconi che volevano buggerarlo per far nascere il governo Maccanico, notizia che Vittorio Feltri aveva anticipato sul giornale. Dopo la puntata il governo Maccanico era morto».
Quali sono le puntate rimaste nella storia? Il confronto Prodi-Berlusconi? La morte di Quattrocchi che interrompe il David di Donatello? L'intervista a Farah Diba vedova dello Scià? Cito a caso
«No. Una cosa che è rimasta nella storia è stata la telefonata in diretta di Giovanni Paolo II nel '98, mi ha emozionato, non era mai accaduto, nessuno se lo sarebbe mai aspettato».
Scusa, ma i vari "contratti per gli italiani"? C'è sempre il momento in cui il tuo studio si trasforma, per incanto, in uno studio notarile
«Certo, poi, ovvio, il contratto con gli italiani. Berlusconi voleva annunciarlo in prima serata, ma era impossibile, così lo convinsi che in seconda, ben ripreso dai tg, avrebbe fatto il botto. Così fu. Idem con Renzi e la promessa del Monte Senario. Renzi ora è diffidente, prima del governo Draghi gli dissi che avrei scommesso che il suo tentativo di far saltare Conte si sarebbe risolto con un rimpasto e qualche poltrona in più. Non ha accettato, era la volta che avrebbe vinto».
Per la serie "groppo alla gola", ricordo anche un tuo volo in elicottero sulla tua città.
«È vero. Emotivamente mi colpì il volo in elicottero su L'Aquila il giorno del terremoto. Purtroppo, io sono un esperto di terremoti, e ho visto chiese che erano sopravvissute a quello del 1703, ora finire distrutte. Mai avrei immaginato quella devastazione».
Porta a Porta è stata spesso anche centro di polemiche. Per esempio quelle attizzate dall'intervista ai Casamonica, o al figlio di Totò Riina. Le rifaresti?
«Non inviterei più in studio i Casamonica, fu un errore. Li farei intervistare ma non li inviterei. Invece rivendico professionalmente l'intervista a Riina jr perché senza non si sarebbe mai avuto idea del potere della Mafia nei confronti dello Stato. Se non l'avesse detto il figlio non avremmo mai saputo che il Capo dei capi, ricercatissimo, andava tranquillamente al mare con la famiglia o in clinica quando gli nascevano i figli. Fu un punto di svolta. E poi tutti dimenticano il dopopartita: intervistai anche la figlia del giudice Chinnici e il figlio di un agente della scorta di Falcone».
Molti notano che, per eludere il limite di legge del cachet di 240mila euro, hai fatto mettere la clausola che considera Porta a Porta un programma di intrattenimento.
«Chi lo fa notare dimentica che quella clausola è la stessa, identica, che c'era nei contratti di Fazio, Gabanelli, Biagi stesso. È un copia-incolla, valeva per tutti. Solo che, guarda caso, la si ritira fuori solo per Vespa».
Va bene l'importanza della "terza Camera". Ma non è detto che i tuoi concorrenti non siano salotti o tinelli o boudoir della politica. Hai citato Michele Santoro, ma di concorrenti diretti ne hai avuti parecchi. Chi vi ha dato più filo da torcere?
«Ti confermo che Porta a Porta rimane la terza Camera, e ti assicuro che è difficilissimo mantenere questo livello, specie considerando che, prima di noi vanno in onda ben 24 trasmissioni politiche nell'arco della settimana, ogni settimana. Chi ci ha dato del vero filo da torcere sono stati due. Maurizio Costanzo che resta quello che ha inventato il talk in Italia. E Enrico Mentana, l'unico in grado di dare alla politica un certo ritmo, e lo si vede con le sue maratone».
Invidi le maratone di Mentana?
«Ma no. Sai, La7 ha una certa elasticità di palinsesto. Noi facciamo altro. A dir la verità non ho neanche più nostalgia delle cronache sul tamburo di quando ero al Tg1, era un'altra vita».
Confermi la tua esasperante applicazione della par condicio? La tua nota maniacalità nel centellinare i tempi di parola, le poltrone, gli inviti a seconda della forza dell'uno o dell'altro partito?
«Noi siamo dei burocrati del pluralismo, calcoliamo tutto minuziosamente. Semmai ora il problema vero sarà con l'opposizione: c'è, in pratica, soltanto Giorgia Meloni, ed è evidente che ci sarà una particolare attenzione per Fratelli d'Italia. Poi certo, ci inventeremo qualcosa. Domani è un altro giorno. Come dice Rossella O' Hara in Via col vento; ed è, tra l'altro, il motivo, per cui ne abbiamo scelto la colonna sonora come sigla di Porta a Porta».
Oltre alla politica ogni tanto cazzeggi con lo spettacolo. Mi ricordo una puntata formidabile sui Pooh. Sembra che tu ti diverta a cazzeggiare
«I Pooh andarono benissimo. Ovvio che il primo a divertirsi sia io. Anche se lo scopo di Porta a Porta è quello di informare, e il suo core business è la politica. Poi, però, abbiamo fatto delle puntate memorabili col Volo al Central Park, con Al Bano che generosamente si metteva a cantare Felicità nella metropolitana di Mosca e la gente lo accompagnava. Anche Liza Minelli che canta in studio era una cosa assolutamente inattesa».
Qual è il politico più televisivo?
«Beh, Renzi è un animale televisivo. Tra l'altro, a Renzi, che è uno che tiene ai posti, bisogna riconoscere che stavolta, con la storia di Draghi ha fatto una scelta di più ampio respiro. È stato coraggioso. E poi, diamine, sì, c'è Berlusconi».
Porta a porta è un brand. Credi che, una volta in pensione (in fondo, non sei eterno neanche tu. Molto in fondo) ti sopravviverà? Magari tramandandola a tuo figlio?
«Credo che il nome Porta a Porta morirà con me. Altri faranno altre trasmissioni. Mio figlio Federico è radiofonico, e ha preso altre strade. Ma non c'è alcun rimpianto. Diciamo che, facendo un bilancio della mia vita, non mi posso lamentare, dai».
Il tuo ultimo libro è ancora il più venduto del 2020. C'è da dire che hai il vantaggio, quando esce, ti presentarlo in tutti i palinsesti del regno, pure concorrenti anche alla Rai. Mentana dice che senza libro sottobraccio una volta non ti aveva riconosciuto...
«Approfitto della cortesia dei colleghi ai quali, diciamo, non faccio abbassare gli ascolti...».
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