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Renato Farina smonta le illusioni su Draghi : "Mario come Cerutti Gino della canzone di Gaber"

Renato Farina
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«Il suo nome era Cerutti Gino Ma lo chiamavan Drago. Gli amici al bar del Giambellino Dicevan che era un mago (Era un mago...)». Presto, fate presto, come usa ormai titolare qualsiasi cosa accada da noi, dai terremoti alla caduta di Gattuso. Sbrigatevi. Va inserito in Costituzione per acclamazione il nuovo inno d'Italia. Vuoi mettere con il vecchio e menagramo «siam pronti alla morte»? Quello che ha da rimpiazzare il Mameli, e di cui abbiamo citato i primi dinoccolati versi fu composto e interpretato da Giorgio Gaber nel 1961, giusto sessant' anni fa, ma sembrano sessanta minuti, perché è perfetto per descrivere l'avvento della nuova età dell'oro che bussa alle porte del nostro Paese. Un sentimento unanime lo afferra tutto, dal Brennero a Capo Passero, esso è passato nel giro di mezz' oretta dalle tenebre di Atlantide sprofondata nel cesso a Bengodi, Cuccagna, Giardino delle Mele d'Oro, fate vobis, ciascuno lo immagini come gli pare: di sicuro è il Regno Fatato di Mario Draghi. Cosa diavolo sta succedendo? Che razza di incantamento ipnotico ha stregato tutti quanti, per cui (quasi) tutti, leader e popolo, prima ancora di sapere che cosa farà e con chi proverà a realizzarlo, celebrano la conquista della Terra Promessa dove scorrono latte, miele e, già che ci siamo, fiumi di euro a cascata sonante? Gli opposti gridi «o Conte o morte» e «morte a Conte, sì al voto» si sono fusi in un universale inchino adorante. Sia chiaro: Draghi non ha fatto nulla per meritarsi questo trattamento da salamelecco totalitario. È bastato che Sergio Mattarella pronunciasse il suo nome, anzi lo sussurrasse tutto minuscolo , m-a-r-i-o-d-r-a-g-h-i, che in un decimillesimo di secondo si è trasformato in M-A-R-I-O-D-R-A-G-H-I, e abbiamo per pudore e ragioni di spazio omesso i mille punti esclamativi e l'emoji di applausi, baci e fiori. Leoni e gazzelle, élite e popolo, da sempre ferocemente separati da odio di classe e di palanche, sono accorsi insieme alla capannuccia dove giornalisti angelicati hanno annunziato (con la z che è più aulico) il salvatore della patria. Come mai? Ci sarebbe anche un'altra domanda: siccome ha settantatré anni, non è che potevano farlo nascere prima? Ma qui si va sul difficile, la storia è sempre un mistero, e non abbiamo voglia di essere indicati come guastafeste e complottisti. Noi qui, senza osare allontanarci dal corteo di vergini che portano doni in vesti candide, ci permettiamo di consigliare prudenza. Non la beviamo. C'è qualcosa di pericoloso alquanto in questo servilismo ostentato. Somiglia tanto al mettere le mani avanti, tipico di chi è convinto che tanto ci penserà Maradona a fare gol, sicuri che comunque vada andrà bene. Se va bene, chi gli ha detto di sì prenderà il merito di avergli lasciato il pallone e si godrà i dividendi. Se Mario-Maradona sbaglierà il rigore, allargherà le braccia, dicendo: avete visto, e voi ve la prendevate con me...

 

 

 

Vai avanti tu...

Esaltarlo è in realtà la maniera untuosa della classe dirigente politica e finanziaria, culturale e sindacale, ecclesiastica e ateistica, per lavarsene le mani. Mandare avanti rivestito di una corazza d'oro e mutande di seta ricamata, una specie di Veltro dantesco, salvo poi in caso di insuccesso trasformarlo immediatamente in capro espiatorio. Ma come? È arrivato qui spacciandosi per Ercole redivivo, esibendo un curriculum da Re Mida del terzo millennio, e invece abbiamo ancora il debito pubblico ciclopico, le formiche circolano negli ospedali di Napoli, al Giambellino i soliti mammalucchi occupano le case popolari. Ma non era lui il Draghi del Giambellino? Tanto più grande è l'entusiasmo scoppiato in un istante, tanto più c'è la gatta che ci cova, Ne diffidi Draghi. Anche il popolo si discosti da un ottimismo drogato dall'illusione. Draghi è uno bravo. Il più bravo, probabilmente. Ma Supermario è roba da fumetto. L'ultima volta che dettero a uno questo nomignolone da Mandraghi, anzi da Mandrake, fu Balotelli. Senza voler paragonare né i bicipiti né soprattutto i cervelli, la cosa non ci pare un bel precedente. Qualcuno per fortuna prova a metterci tutti in guardia. Tra le varie imitazioni di Mario Draghi stavolta la migliore non è quella di Maurizio Crozza, lo supera per parole, voce e faccia quella di Neri Marcorè. L'attore e comico presta al presidente del Consiglio incaricato ma soprattutto universalmente adulato le parole di Gesù Cristo. Draghi dice: «In verità in verità vi dico». Poi si rivolge al Nazareno chiamandolo confidenzialmente «collega». Non attribuisce all'ex banchiere la megalomania di essere la reincarnazione del Divin Pargolo, però più maturo e meglio vestito, ma riproduce la grottesca pretesa dell'immenso stuolo dei suoi nuovi lacchè (stessa etimologia di leccaculo). Il bello è che Draghi lo sa, e dovrebbe inventarsi qualcosa per ridimensionare l'illusione. Noi ci accontentiamo che realizzi capovolgendola un'altra geniale invenzione di Gaber (questa è del 1994). Essa circola sui social come perfetta sintesi dell'epoca nostra. Si intitola «La sedia da spostare». Sintesi: tutti dicono che va spostata, sono tutti d'accordo. Non la sposta nessuno. Arriva il tecnico. Dice anche lui la stessa cosa. Finisce con un «Parliamone, parliamone, parliamone». La solita tiritera delle chiacchiere. A noi basta che sposti una sedia. Non di dieci metri. Di dieci centimetri. In Italia sarebbe un miracolo da messia, da Draghi del Giambellino, e lo chiamavan Mago. 

 

 

 

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