Nicola Zingaretti, l'indiscreto di Pietro Senaldi: "Fai qualcosa", la fronda nel Pd che lo vuole far fuori
Il dover sostenere Draghi insieme a Lega e Forza Italia sta mandando in tilt M5S e Pd, finiti sotto processo dai loro seguaci, mentre Salvini non ha problemi a far digerire la svolta ai propri sostenitori. È la differenza tra chi ha un elettorato ideologico, nutrito negli anni a odio e pregiudizi, e chi si rivolge a cittadini che concepiscono la politica non solo come gestione del potere ma anche come uno strumento per facilitare la vita alle persone. I leader dei due partiti che stanno uscendo malconci dalla parentesi Draghi ancora prima di entrarvi hanno però problemi diversi.
Grillo sa cosa fare. Ha capito che l'esperienza di M5S come forza di governo è stata fallimentare e ha deciso di trasformare i Cinquestelle in un movimento ecologista, per conservare almeno un 15% di consensi. Per riuscirci deve mettere a tacere i tanti rompiscatole che ancora pensano di poter guidare il Paese. Perciò ha rimandato di un giorno la votazione su Rousseau sul nuovo governo e ha sparato un sacco di scempiaggini a ruota libera, sostenendo che l'ex presidente della Banca Centrale Europea è più grillino di Casaleggio padre, più ambientalista di Greta e più piazzaiolo di Di Battista. Fregnacce, alle quali non credono più neppure i suoi elettori, che in buona parte lo stanno mandando dove lui fino a ieri voleva spedire quelli come Draghi, come spiega Filippo Facci nell'articolo che apre il nostro giornale. Come sempre, per il guru, il problema è spostare il gregge, non farlo belare.
Del tutto diversa la situazione di Zingaretti. Lui di questa crisi non ci ha capito nulla dal primo minuto e non ha un piano; né A né B né C. La forza del presidente della Regione Lazio è stata la consistenza gelatinosa, che gli ha permesso di arrivare alla segreteria perché era quello che faceva meno paura di tutti e i colonnelli piddini erano persuasi di manovrarlo a piacere, come peraltro hanno fatto. Nicola non voleva Conte perché preferiva andare al voto, poi per un anno lo ha seguito come un cane da riporto, portandogli scodinzolando consensi con la bocca. Quando i vertici dem hanno concluso che lasciare a Giuseppe pieni poteri era troppo, hanno fatto un fischio e Zingaretti ha dato via libera all'attacco al premier, del quale si è incaricato il senatore di Scandicci che, antipatico quanto si vuole, ha più palle del fratello di Montalbano. Più della brama di potere però ha potuto l'odio per Renzi, che ha portato i dem a fare retromarcia e tifare Conte solo per far dispetto al loro vecchio segretario.
Oggi gli eredi di Berlinguer si ritrovano ad aver ottenuto il risultato ma a non poterselo intestare come una vittoria, perché quando stavano per raggiungerlo si sono ritirati, lasciando strada libera al leader fiorentino. Il Pd è al paradosso: il 70% degli italiani è felice di avere Draghi al posto di Conte e si sente grato a chi lo ha liberato dell'avvocato di Volturara Appula ma i dem non possono rivendicare la parte di merito che hanno in questo e, per insondabili calcoli strategici, truccano un successo come un sopruso subito. Ogni cosa è logica, nell'irrazionalità che governa i compagni e impedisce loro di tenere il potere a lungo quando ci arrivano. Dominati dall'odio, non hanno aiutato Renzi a dare scacco matto. Vittime dello stesso sentimento subiscono ora l'iniziativa di Salvini, che sta recitando il ruolo di leader aperturista, europeista, democratico, pragmatico, rispettoso del presidente della Repubblica e collaborativo con il premier: tutto quello che i progressisti a parole si vantano di essere ma non riescono mai a diventare.
E poi c'è Zingaretti, non come leader del partito ma in quanto tale. Diventa protagonista solo quando c'è bisogno di un punching-ball. Mentre i suoi sottopanza trattano posti, lui offre la pelata agli insulti della base. «Sveglia, decidi qualcosa». «Sei fallimentare». «Basta correre dietro a M5S». «Non hai idee né capacità di azione». La sua pagina Facebook è una lista di lucide considerazioni ai danni del segretario nelle quali gli elettori dem danno sfogo alla loro delusione. Anziché intestarsi il discorso del capo dello Stato, che ha la tessera del Pd in tasca, e dire chiaramente ai suoi sostenitori che contributo il suo partito intende dare al governo chiamato a salvare l'Italia, Zingaretti, per dirla con Concita De Gregorio, «fa l'ologramma, traccheggia, inciampa, esita». Parole scritte due settimane fa, quanto era ancora possibile un Conte-ter a maggioranza giallorossa. L'ex direttrice dell'Unità non ha doti divinatorie. Semplicemente, conosce il suo pollo, che si spenna da solo.
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