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Filippo Facci, "vince chi lecca di più Mario Draghi". Premier assediato dai partiti: "La differenza tra lui e l'omino Conte"

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C'è un premier incaricato di nome Mario Draghi che viene descritto come se avesse camminato sul lago di Tiberiade (soprattutto se raffrontato al suo predecessore) e che per colpa di una banale legge fisica - il tempo terrestre non è comprimibile o dilatabile - avrà giusto modo di fare tre o quattro cose importanti: tra queste c'è una gestione decente del Piano vaccini, che per ora naviga a vista, e la preparazione del cosiddetto Recovery plan, un piano che serve a finanziare una ripresa economica degli stati europei con progetti strutturali; l'Italia figura tra i maggiori beneficiari di questo fondo (209 miliardi) ma a differenza degli altri stati non ha ancora elaborato un'idea.

 

 

Draghi, nel tempo disponibile della residua legislatura, cercherà ovviamente di prendere altre misure importanti per rilanciare l'economia, magari investire, insomma rendere più presentabile il nostro Paese agli occhi dell'establishment europeo e globale; magari cancellerà qualche eminente stronzata fatta dal governo precedente (esempio: una bella sbianchettatura sull'ignobile riforma della prescrizione) ma per il resto abbiamo una gradita certezza: che non avrà tempo né voglia di occuparsi delle rogne tra i partiti e dentro i partiti, dei veti e controveti, delle singole pretese dei singoli partiti cui non è chiaro, forse, che il premier potrebbe formare un governo anche senza di loro, e che in questo potrebbe avere tutto l'appoggio dell'unico alleato fondamentale del premier, cioè il capo dello Stato Sergio Mattarella.

Le rogne dei partiti, gli stessi veti e controveti e le varie pretese partitiche sono probabilmente le stesse che Mario Draghi ha dovuto e dovrà sorbirsi in questi giorni di cosiddette «consultazioni», ciò sarebbe stato bello evitare, ma per un tecnico esterno al Parlamento, che varerà un governo essenzialmente tecnico, forse sarebbe sembrato troppo. Le consultazioni con partiti e partitini e parti sociali e presidenti ed ex presidenti (due settimane perse) tuttavia non sono obbligatorie: sono solo una consuetudine e un galateo istituzionale, ma la Costituzione non impone questa procedura. Draghi, guardando il bicchiere mezzo pieno, potrà trarne beneficio assistendo rispettivamente ai vari baci dell'anello (una gara a chi lo elogerà di più, prima di avanzare pretese) e poi comprendendo meglio perché questi partiti hanno costretto a ricorrere a uno come lui. Da quanto inteso, ci sono ancora forze e movimenti convinti davvero di poter dettare delle condizioni, discutere su chi possa fare il ministro e comporre una maggioranza, infinite e frammentate delegazioni (basti pensare all'arcipelago della sinistra) che sbrodolano e sbrodoleranno dopo essersi prostrati davanti a un uomo a cui in realtà avrebbero continuato a preferire un omino, Giuseppe Conte.

 

 

Mal di pancia - Così il secondo giro di consultazioni è iniziato con un censimento dei vari mal di pancia partitici (sui giornali, più che altro) che per Draghi si sarà tradotto in un terribile bagno di consapevolezza. I vari leader sono lì che, di ora in ora, segnalano insormontabili difficoltà, ostacoli alle possibili alleanze, veti riveduti e corretti, tattiche e pretattiche in un gioco a cui in realtà non giocano più: sono stati espulsi. C'è chi non l'ha inteso, e ancora cerca di ottenere condizioni, regole d'ingaggio, poltrone e sgabelli, ma ciò che più conta è già accaduto. Il leader della Lega Matteo Salvini ha aperto al governo Draghi senza troppi preamboli, pur precisando che gli sarebbe difficile governare con chi «vuole mandarmi in galera», e cioè i grillini: ma tutti a parlare di «svolta europeista» di Salvini e al tempo stesso a dire che Salvini vuole imporre al nuovo dicastero delle scadenze.
 

 

 

Rispunta pure Conte - I grillini come al solito sono i più dilaniati e ridicoli, e l'intervento di Beppe Grillo pro Draghi ha solo parzialmente ricomposto l'eterna riunione condominiale dei cento satelliti grillini: chi a parole è possibilista e chi viceversa è contrario (nomi non val la pena di farne) e chi pone come condizione che non ci sia la Lega, altri che Draghi faccia una riforma elettorale, altri che, comicamente, invocano un voto decisivo della «base» che vota sulla piattaforma Rousseau; c'è persino Giuseppe Conte che si è autoannesso ai grillini e fa il possibilista pur ponendo anche lui dettami e condizioni. I Cinque Stelle e il Partito Democratico sono quasi una coalizione, ma ciascuno pone veti alla Lega in modo diversamente variegato: e magari uno come Draghi dovrebbe tenerne conto, come se ne gliene importasse qualcosa. Ospite del programma Mezz' ora in più di Lucia Annunziata (Rai3) il segretario del Pd Nicola Zingaretti vedeva ancora come problematica un'alleanza di governo che unisse centrosinistra e Lega. Tutti problemi che ufficialmente non esistono, visto che nessuno sa dire che cosa Draghi voglia fare: se un governo solo di tecnici (speriamo) o se uno tutto politico (difficile) o se uno misto tecnici-politici (sconsigliabile). Figurarsi che senso possa avere il totonomi che circola e cambia repentinamente in questi giorni: sottosegretari, nuovi ministri, ministri riconfermati, tecnici d'area: come se dell'ultimo governo, e delle indicazioni dei rispettivi partiti, ci fosse molto di cui salvare. Ma fa niente: aspettando l'unica cosa che conta (il programma) la Lega parla di tasse e preferibilmente di Flat Tax (invisa al Pd) e il Pd parla di lavoro e di fisco più equo e progressivo, i grillini parlano di un po' di tutto ma difendono strenuamente il reddito di cittadinanza (altro disastro epocale da sciogliere nell'acido) e in ordine sparso c'è chi tira in ballo ancora l'immigrazione. Se scoprissimo che durante le consultazioni Mario Draghi avesse avuto dei tappi di cera nelle orecchie, no, non ci stupiremmo e anzi: saremmo contenti, perché abbiamo capito, almeno noi, che l'unico in grado di porre delle condizioni è proprio lui, assieme a un certo Sergio. 

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