Mario Draghi l'americano, ecco perché non sarà un nuovo Mario Monti
C'è una leggenda da sfatare, un luogo comune ripetuto in queste ore con tale zelo bipartisan da essere di per sé sospetto: Draghi come Monti. Un Mario vale l'altro, siamo sempre all'esproprio tecnocratico della politica (come se il governo Conte-Casalino-Travaglio, peraltro, c'entrasse qualcosa con quest' ultima). No, chiunque orecchi anche di straforo le storie intellettuali e professionali dei due sa che non è così. A partire dal contrasto più macroscopico: Monti è stato l'esecutore in Italia del rigorismo tedesco, Draghi è stato l'avversario in Europa del suddetto.
Il primo aveva un rapporto di subordinazione rispetto ai dogmi merkeliani, di cui era una sorta di rappresentante locale. Draghi aveva un rapporto di parità con la nomenclatura teutonica, spesso di parità nella contrapposizione. Il presidente della Bundesbank Jens Weidmann lo accusò esplicitamente di essersi "spinto troppo oltre" con la politica espansiva del Quantitative Easing, ma lui se ne infischiò e proseguì nell'iniezione di liquidità, che seppur indirettamente trasferì ossigeno nei polmoni dell'economia reale, italiana in primis. Non sono episodi accidentali, ma figli di un'impostazione culturale che Draghi ha confermato anche nel suo ultimo intervento pubblico, quello al Meeting di Rimini di agosto. «Il debito sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile se utilizzato a fini produttivi - investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca - se è cioè debito buono.
La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi». Cioè: Draghi, di formazione molto più anglosassone che continentale, guarda al liberismo sviluppista di Milton Friedman, che prevede nei momenti di crisi (come senza dubbio una pandemia è) la possibilità di «lanciare moneta dall'elicottero», piuttosto che all'ordoliberalismo teutonico e al suo feticismo dell'austerità.
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Non a caso, pur essendo ovviamente europeista, non è un talebano della Ue a trazione franco-tedesca di cui l'Italia dovrebbe essere la diligente ancella, com' era Monti. È invece, per storia e per relazioni (non solo la vicepresidenza di Goldman Sachs all'inizio degli anni Duemila, ma anche la direzione esecutiva della Banca Mondiale dal 1984 al 1990) anzitutto un atlantista, uno dei pochissimi italiani rispettato a Washington, oltre che temuto a Bruxelles. Insomma, più investimenti e infrastrutture all'americana (come scrisse anche nel marzo scorso in una sorta di manifesto anticipatore sul Financial Times) che lacrime e sangue all'eurocratica.
Eppoi, scusate, c'è l'ultima, abissale differenza nella genesi stessa: Monti nel 2011 fu imposto alla politica, con un'operazione che con esasperato ottimismo eufemistico potremmo chiamare "colpetto di Stato" rispetto al governo Berlusconi in carica e (vecchi tempi) votato dagli elettori. Draghi oggi fa la sua apparizione solo perché la politica si è suicidata, col reiterato spettacolo indecoroso delle istituzioni sequestrate dal mercato delle vacche giallorosso, perdipiù fallito. Il primo Mario fu una forzatura, il secondo è una conseguenza. Che perlomeno non dilapiderà i miliardi del Recovery Found in redditi di cittadinanza e banchi a rotelle.