Domenico Arcuri "umiliato da Burioni, dai numeri e dai fatti". Filippo Facci smonta il commissario punto per punto
Noi aspettiamo serenamente. I morti. L'appuntamento imperdibile (si fa per dire) non è più da un pezzo l'ipnotico bollettino quotidiano in cui si spiegano i dati Covid-19 del giorno prima: l'appuntamento imperdibile è diventato l'uno/due Arcuri-Burioni trasmesso da Che tempo che fa (Raitre) in cui il meritato assopimento domenicale diviene quasi riposo (eterno) quando parla il commissario Domenico Arcuri, e si trasforma in gradito risveglio (tipo caduta dalla poltrona) quando la parola passa a Roberto Burioni, il virologo da ascoltare ponendo una mano a scaramantica protezione. Domenica, appunto, il soporifero Arcuri ha spiegato che i vaccini funzionano e riducono progressivamente i contagi (e sin qui c'eravamo) e che le folle e gli assembramenti però allungano i tempi (c'eravamo anche qui, ma evidentemente non tutti) e però il punto contestato è questo: «Dovremo serenamente condividere», ha detto Arcuri, «che i vaccini che abbiamo a disposizione sono largamente di meno di quelli che ci era stato detto. Noi paesi fruitori abbiamo una quantità di vaccini largamente inferiore rispetto a quelli scritti nei contratti».
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Parentesi: questo non spiega perché altri «paesi fruitori» abbiano comunque a disposizione più vaccini di noi o perché procedano più velocemente di noi nel somministrare quelli che hanno a disposizione (parliamo di paesi europei) e però è quel «serenamente» autoassolutorio e fatalista che è piaciuto poco a Roberto Burioni e un po' a tutti noi. «Mi ha colpito», ha detto più tardi il virologo, «l'utilizzo di un avverbio: che dobbiamo accettare serenamente che ci siano meno vaccini. Io posso accettare serenamente la foratura di una gomma, ma se vado da un paziente in ospedale e gli dico che non ho gli antibiotici per curarlo, lui non lo accetta serenamente». Ergo: «Bisogna dire le cose come stanno e dire che un ritardo nella consegna di vaccini significa morti». In effetti. «Quando a Kennedy dissero che ci voleva tempo per andare sulla Luna, lui disse "allora cominciamo subito". Noi non possiamo non andare sulla Luna: i vaccini sono indispensabili. Io sono a favore del giusto profitto, chi ha lavorato e rischiato deve avere un compenso», ha precisato Burioni riferito ai produttori dei vaccini, «ma questo non può venire prima della vita umana. Siamo riusciti a fare qualcosa di incredibile, e non riusciamo a produrla?». A parte la giustificata polemica su un avverbio, il problema di cui discutere è divenuto ovviamente la distribuzione dei vaccini. Il sereno Arcuri, domenica, ha detto che l'Italia era scattata alla grande (vero) anche perché aveva avuto i previsti vaccini Pfizer che erano somministrabili senza limiti di età e a categorie precise: medici e personale paramedico. E tutto è filato veloce e liscio. C'era poi un'altra cosa che sapevano tutti, ma veramente tutti: che dal 29 gennaio sarebbero arrivati i vaccini di AstraZeneca, i quali, tra tanti pregi (più facili da conservare e quindi trasportare, non avendo bisogno dei super-frigoriferi) avevano il difetto di essere indicati per persone d'età inferiore ai 55 anni: e si doveva tenerne conto nell'individuazione delle categorie a cui, come si dice, inoculare il vaccino. Quali? Ecco un'altra cosa che non lascia sereni per niente: queste categorie non ci sono, e le strutture per somministrare neanche. Non le hanno ancora decise: nonostante tutto il tempo che hanno avuto per farlo.
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Quel che ci manca - La situazione in concreto: l'8 febbraio arriveranno dal Belgio le prime 428.440 dosi, a cui se ne aggiungeranno 661.133 il 15 del mese. L'Agenzia del Farmaco in teoria deve ancora confermare che l'età ideale di somministrazione è tra i 18 e i 55 anni, ma lo diamo per scontato. Le categorie, invece, non si conoscono. Ieri hanno fatto l'ennesima riunione tra ministri della Salute (Roberto Speranza) e degli Affari regionali (Francesco Boccia) e governatori vari, più il solito Arcuri, ma ognuno dice la sua. L'ascoltato Nino Cartabellotta, esperto di sanità e presidente della Fondazione Gimbe, suggerisce di cominciare dagli insegnanti per poi passare ai servizi pubblici, le forze dell'ordine e le carceri. La Regione Lazio ha fatto sapere che per decidere bisognerebbe coinvolgere il Parlamento, classica tecnica dilatoria e perditempo: «È necessario che le Regioni siano messe nelle condizioni di avere un'indicazione circa le priorità e l'aggiornamento del Piano strategico nazionale». Ma il problema, in termini organizzativi e logistici, è proprio che il famoso Piano strategico è ancora una chimera. C'è, ma è approssimativo, scarno, praticamente una bozza. Da qui all'8 febbraio c'è giusto una settimana per decidere come suddividere gli under 55 italiani: liste con nomi e cognomi e poi convocazioni in non si sa quali centri vaccinali. Qualche regione ha allestito qualcosa, ma è ancora tutto molto improvvisato. Si parla di coinvolgere i medici di base, e le farmacie, ma appunto, si parla. Il rischio che arrivino i vaccini e non ci sia la macchina per distribuirli e somministrarli è piuttosto concreto. Circa le strutture, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha proposto di utilizzare le fabbriche per la vaccinazione di massa: ma non ha ricevuto risposte.
Una maratona - Non essendo chiare troppe cose, vien quasi da relegare a un futuro remoto il fatto che entro il 31 marzo le dosi attese dovrebbero essere 3,4 milioni totali: anche se è ancora in corso lo scontro tra Commissione europea e AstraZeneca dopo l'annuncio che il taglio delle forniture rispetto ai tempi previsti, in sostanza, sarà del 75 per cento. Nientemeno. AstraZeneca si è impegnata ad aggiungere 9 milioni di dosi per tutta l'Europa (farebbero 1,2 milioni in più per l'Italia) ma insomma i numeri restano un po' ballerini. Non essendoci numeri attendibili, individuare e suddividere le categorie diventa più complicato: sarà per questo che l'Italia è rimasta praticamente immobile. Rischia di rimanerlo a lungo, visto che nella corsa alla profilassi le cose cambiano di giorno in giorno: la stessa AstraZeneca nel giro di un mese o poco più potrebbe fornire dati di nuove sperimentazioni che potrebbero includere fasce di età più elevate (sino ai 65) e dopo le solite validazioni dell'europea Ema e dell'italiana Aifa la suddivisione delle categorie andrebbe in parte rifatta: resta che per ora non è neanche fatta. E gli ultraottantenni? Per loro ci sono i vaccini di Pfizer e Moderna, ed è tutto più semplice perché il criterio è anagrafico: ma bisogna prenotarsi, e per farlo c'è un sito (neanche in tutte le regioni) che non di rado gli ultraottantenni non sono specializzati nel saper usare. Nel frattempo, sembra che si continui a vaccinare ma in realtà siamo fermi: le varie regioni i stanno solo inoculando le seconde dosi, che hanno già ricevuto in circa 600mila su poco meno di un paio di milioni totali. Se il passo rimanesse questo, calcolate voi quanti anni impiegherebbe il Paese per uscire da questo incubo. Siamo partiti con scatto da centometristi, ma resta una maratona in cui mostriamo già il fiato corto: ben 31 paesi ci hanno già superato per dosi giornaliere per milione di abitanti.