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Giuseppe Conte, il centrosinistra spinge il premier alle dimissioni: è l'ora di lasciare

Alessandro Giuli
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Se Giuseppe Conte avesse la dignità dello statista che presume di essere, se ne sarebbe già tornato a casa da un pezzo; le ali cadute e l'ego sgonfiato come un pallone che ha preso troppi calci. Purtroppo non è così: a dispetto di una conclamata minorità politica e parlamentare, l'avvocato di Volturara Appula se ne sta ancora avviticchiato al suo piccolo trono di Palazzo Chigi assieme al buttadentro domestico Rocco Casalino, entrambi alla ricerca disperatissima del manipolo mercenario che possa garantire alla maggioranza relativa di scavallare il voto sulla relazione del Guardasigilli Alfonso Bonafede prevista giovedì in Senato.

Ma la novità di queste ore è che il benservito a Conte sta arrivando non più solo dall'opposizione, adesso è la sua gente a dimostrargli sfiducia. Perfino Luigi Di Maio, ieri in tv, ha fatto capire che non si può proseguire oltremisura con la pesca a strascico parlamentare per sostituire la pattuglia dell'inviso Matteo Renzi: «Dobbiamo risolvere la situazione nelle prossime 48 ore - ha detto il titolare della Farnesina - ma se i numeri a sostegno del governo sono un qualcosa di raccogliticcio io sono il primo a dire andiamo al voto». Dietro la parola "voto", naturalmente, è lecito indovinare qualunque soluzione alternativa sia alle urne anticipate sia alla prosecuzione con l'attuale presidente del Consiglio. E se Di Maio, come un pezzo ancora maggioritario della nomenclatura del Partito democratico, continua a ritenere il bullo di Rignano un inaffidabile da scansare fino all'esaurimento d'ogni altra eventualità, il suo influente e felpatissimo collega Emilio Carelli si è spinto fino a invocare un ritorno al dialogo con Renzi. Ipotesi sempre ieri ribadita dallo scaltro Pierferdinando Casini: «Conte dovrebbe recarsi al Quirinale, rassegnare le dimissioni e recuperare il dialogo con Renzi».

 

 

E qui entriamo nelle sabbie mobili dei centristi di vecchio e nuovo conio che sin qui hanno manovrato per puntellare il barcollante carrozzone contiano. Il principale arruolatore era Bruno Tabacci e ha dovuto infine ammettere che «non ci sono i voti» ergo «Conte si dimetta». Per andare finalmente a casa? Non si può dire in modo così esplicito, infatti la narrazione è che il premier deve rimettersi alla clemenza del Quirinale per un reincarico prima del bagno di sangue a Palazzo Madama sul testo di Bonafede. A sigillare la sopraggiunta inclinazione al "vaffa" di parte democristiana, peraltro, è nientemeno che Romano Prodi il quale ieri sul Messaggero ha sdottoreggiato a lungo sulle urgenze dell'agenda italo-europea con un messaggio inequivocabile: «Non è raccogliendo qualche parlamentare in cerca di sistemazione che si prepara il nostro futuro».

E a proposito del Prof. bolognese, una quota sempre più consistente di dirigenti democratici sta platealmente chiedendo al segretario Nicola Zingaretti di non immolarsi per Conte: dai capigruppo Andrea Marcucci e Graziano Delrio, fino al potentissimo e ubiquo capodelegazione di governo Dario Franceschini, sta emergendo la realistica ammissione che il protervo avvocato non potrà mai essere il nuovo Prodi del Pd. Ha avuto l'opportunità di trasformarsi nel papa straniero sempre caro alla vecchia guardia diessina (non per caso dietro di lui c'è almeno un baffo di D'Alema) ma l'ha sprecata avvitandosi in un conflitto personalistico aggravato dalla minaccia di farsi una lista sua che danneggerebbe anzitutto l'antica ditta.

Vogliono dunque eliminarlo? Non proprio, semplicemente non lo considerano più intoccabile, abbarbicato com' è a uno schema di resistenza a oltranza al limite dell'oltraggio istituzionale verso il presidente Sergio Mattarella. Perfino il capo dello Stato lascia trapelare sconcerto, non potendo fare quasi nulla a rigor di Costituzione fintantoché il premier in carica non avrà mollato la presa. Al Colle si ragiona d'abitudine in termini impersonali, sicché Conte viene giudicato sacrificabile in cambio di un nome che rimetta in pista la maggioranza appena azzoppata o ne garantisca un'altra purché omogenea e allargata almeno ai moderati di centrodestra (modello Ursula). Non che la variabile d'un Conte ter sia esclusa, tuttavia si sa che una volta dimessosi Conte verrebbe meno il primo ostacolo alla riapertura delle grandi trattative parlamentari. Ivi comprese quelle che potrebbero condurre a un governo del presidente, extrema ratio per Mattarella che non è un interventista, anzi avverte una certa stanchezza e scorge il pensionamento dell'anno prossimo come un traguardo per certi versi liberatorio.

Cionondimeno anche lui avrebbe fatto pervenire l'ultimatum a Conte: hai ancora tre giorni a disposizione per la tua pesca dei miracoli, dopodiché sarai atteso al Quirinale con le orecchie basse onde evitare una convulsione che potrebbe rivelarsi fatale per la legislatura. E sempre qui torniamo: se Conte non fosse ciò che è, la dignità gli avrebbe già imposto di farsi da parte.

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