Matteo Renzi? Alessandro Giuli: ha illuso un po' tutti ma il più illuso forse era lui
Matteo Renzi ci ha pensato, illudendoci un po' tutti, poi è arrivato a un passo dal traguardo ma sul più bello si è sconfitto da solo: poteva votare contro il governo di Giuseppe Conte e farlo caracollare giù, rischiando di perdersi alcuni dei suoi per strada, invece ha preferito la linea ininfluente dell'astensione. Risultato: è stato sconfitto anche lui dalla ventata di nequizia parlamentare soffiata nelle vele del trasformista di Palazzo Chigi; sia pure di misura, però con effetti ancora imponderabili nella loro negatività. Conte l'ha sfangata e ha mantenuto una provvisoria centralità negli equilibri della precarissima legislatura. Il perdente è il capo di Italia viva, o meglio semiviva a giudicare dalla transumanza decisiva di alcuni suoi effettivi verso i lidi più promettenti della nuova maggioranza (Riccardo Nencini alla fine ha optato per il sì, portando l'asticella dei contiani a 156).
La giornata campale di ieri, con il voto in Senato preceduto dal più affilato discorso renziano dopo quello inflitto a Matteo Salvini nell'estate ribaltonista del 2019, a modo suo chiude un ciclo politico e apre un precipizio sulle prospettive del riformismo italiano. Il senatore di Scandicci ha giocato da pokerista e, pur lasciandosi aperta fino all'ultimo una fessura per l'eventuale accordo in extremis (è stata l'ex ministra Teresa Bellanova, e non il leader, a formalizzare l'astensione del gruppo, poi confermata in Aula), al momento di prendere la parola non si è fatto mancare il piacere di un affondo all'ultimo sangue. Come in un'ordalia, Renzi ha scommesso tutto: ora o mai più.
«Siamo stati fin troppo pazienti - ha detto -, sono mesi che le chiediamo una svolta. La comunicazione per cui questo non è il momento per aprire una crisi è passata. Ma noi pensiamo all'opposto che questo è un momento opportuno, ora o mai più. Ora ci giochiamo il futuro, non tra sei mesi». Ora un governo più forte, ora uno slancio sviluppista e liberale sul Recovery Plan, ora il sì al Mes. Troppo esigente, Renzi, con ogni evidenza, e in cuor suo lo sapeva benissimo. Sicché ha potuto tratteggiare con maggior convinzione i contorni di quel che resterà dopo il suo congedo forzoso dalla maggioranza giallorossa: il mercato delle vacche in Parlamento, la distribuzione dei privilegi per gli scappati di casa di varia provenienza, la testimonianza orale di un'offerta irricevibile in cambio di un tastacoda repentino («quando ci siamo visti mi ha offerto un incarico agli Esteri e io le ho detto gentilmente di no. La politica non è solo distribuzione degli incarichi»).
E così, dopo aver minato i tralicci del Conte bis d'intesa con il Partito democratico che tuttavia voleva soltanto minacciare il botto per ridimensionare l'avvocato di Volturara Appula, il bullo di Rignano ha finito per farsi esplodere, con la sua generosa brigata parlamentare, propiziando involontariamente la nascita del terzo governo Conte in tre anni. Il primo nazional-populista, il secondo social-populista, il terzo clerico-poltronista. Un capolavoro di autolesionismo in cui, e pure qui lo sconfitto Renzi non ha torto, la Nazione si gioca l'osso del collo in piena pandemia e l'interesse pubblico scolora a beneficio dei calcoli pulviscolari dei carrieristi di complemento giunti in soccorso del vincitore.
«Mi auguro che metta al centro le idee e non lo scambio di poltrone perché il Paese non si merita un mercato indecoroso», ha concluso l'ex premier sempre rivolto a Conte, non senza privarsi del diritto d'inviare un messaggio testamentario a Nicola Zingaretti e ai compagni d'un tempo: «Quando tornerete a fare politica, ci troverete lì ad aspettarvi». Una profezia ottimistica, sul lato personale, e al tempo stesso la certificazione che il Pd s' è ammanettato al narcisismo compulsivo di Conte e della corte dei miracoli giornalistica che a furia di adularlo e impennacchiarlo ne ha subornato i peggiori istinti personalistici.
Non che a Renzi faccia difetto l'autostima (eufemismo), e forse questo è stato uno dei detonatori principali: una tenzone politica e dai contenuti ben circoscritti, a volerlo davvero, è diventata una disfida egomaniacale da cui qualcuno sarebbe per forza dovuto uscirne male. È toccato all'amletico Renzi, perché il resto della sinistra ha preferito seguire la mappa del proprio rancore punteggiata di cicatrici ancora evidentissime. Tutto ciò ha consentito a Conte di trasformare il suo "arrocco dannoso" in una battuta di caccia fra i voltagabbana e ripresentarsi per la replica serale con la boria del predatore mancato, straparlante di "disciplina e onore". Il verdetto consentirà forse a Renzi di vendicarsi rendendo infernale il cammino della maggioranza nelle Commissioni. Bella soddisfazione.