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Donald Trump e l'assalto a Capitol Hill, golpe contro il presidente? La confessione di Luigi Zingales: "Molti pretesti sono fabbricati"

Antonio Socci
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«Tutte le involuzioni autoritarie hanno bisogno di un pretesto. Il turco Erdogan ha utilizzato il tentato colpo di Stato del 2016, Mussolini il tentato omicidio di uno studente di 15 anni nel 1926, Hitler l'incendio del Reichstag. In alcuni casi i pretesti sono chiaramente fabbricati, come nel caso di Hitler, altri sono chiaramente autentici, ma in tutti questi casi la reazione emotiva a un torto serve a giustificare qualcosa che, almeno nel lungo termine, è molto peggio. Sento che questo è ciò che sta accadendo negli Stati Uniti in questo momento». Chi firma queste considerazioni, prendendo spunto dall'irruzione di manifestanti nel parlamento americano del 6 gennaio, non è affatto un trumpiano o un analista "di destra". Tutt' altro. È Luigi Zingales, stimato e autorevole economista italiano che ha una cattedra alla prestigiosa Università di Chicago e una quantità di titoli accademici. In Italia è editorialista del Sole 24 ore e ha una rubrica su L'Espresso. L'articolo di Zingales è uscito su "Promarket", pubblicazione collegata alla stessa Università di Chicago. Naturalmente subito dopo quel suo sorprendente esordio, l'autore sente il bisogno di fare professione di fede antitrumpiana (negli Stati Uniti oggi un intellettuale che non condanna Trump ha una vita dura). Così ripete la solita solfa mainstream: che Trump ha sbagliato, che «dovrebbe essere messo sotto accusa» e addirittura che «il Senato dovrebbe anche vietargli di candidarsi a cariche pubbliche in futuro».

BAVAGLIO PERICOLOSO
Detto questo (tutto senza motivazioni e argomenti), Zingales riprende il suo ragionamento e spiega che «le sue azioni di sedizione, tuttavia, stanno smascherando il potere politico di cui gode TAGAF (Twitter, Amazon, Google, Apple e Facebook)». Zingales ricorda tutto quello che ha portato di fatto a silenziare il Presidente e ritiene che si tratti di «un pericoloso precedente» perché segna una «irreversibile» concentrazione di potere «nelle mani di poche aziende private», aggiungendo che pure «le persone di sinistra», che magari applaudono il bavaglio a Trump, «dovrebbero essere preoccupate» perché quel potere potrà essere usato domani contro di loro. L'economista ripropone peraltro i due tweet per i quali, l'8 gennaio, Trump è stato definitivamente silenziato. Il primo diceva così: «I 75 milioni di grandi patrioti americani che hanno votato per me avranno una voce gigantesca in futuro. Non gli si mancherà di rispetto né saranno trattati ingiustamente in alcun modo o forma!!!». Ecco il secondo tweet: «A tutti coloro che lo hanno chiesto, non andrò all'inaugurazione il 20 gennaio».

Cosa c'è di censurabile? Zingales ricorda che Twitter e Facebook «rappresentano un'infrastruttura di comunicazione di base» come era il telefono ed escludere qualcuno è come impedire a un individuo «di accedere al telefono». Il sottinteso (discusso al Congresso) è questo: se sei un editore puoi decidere cosa pubblicare e cosa no, ma ne rispondi davanti alla legge. Se (come i giganti del web) sei come una compagnia telefonica, non ne rispondi e non puoi togliere la linea a un cittadino per le idee che professa. Gran parte dei media hanno applaudito il bavaglio a Trump («non è chiaro se siano accecati dal loro odio per Trump o siano già parte integrante del nuovo ordine mondiale», scrive Zingales). Quello che interessa segnalare all'economista è l'enorme potere del gruppo TAGAF, un monopolio o un oligopolio che incide sulla libertà dei cittadini. Il problema riguarda sia il libero mercato (e la concorrenza) che la democrazia. Finora si sono ignorate «le conseguenze politiche della concentrazione del potere economico nelle piattaforme digitali», ma Zingales (nel suo articolo intitolato «Il colpo di Stato silenzioso») sostiene che è venuto il momento di discutere se TAGAF «stia minacciando la nostra democrazia». Oltre a Zingales ci sono anche altre voci autorevoli che preferiscono l'analisi oggettiva dei fatti alla caccia alle streghe di questi giorni.

 

 

I NUMERI DI DONALD
Su Limes (11/20), rivista di geopolitica del gruppo Gedi (Repubblica/Espresso), quindi anch' essa di "area progressista", si legge un corposo editoriale che anch' esso mette in luce diverse verità taciute dalla narrazione dominante sui fatti americani. «Di strutturale c'è negli ultimi anni la crisi di autorità delle élite» scrive Limes che poi rappresenta questa situazione degli Usa: «Conformismo diffuso dai media all'accademia, dalla finanza alla politica, fino agli apparati visibili o profondi. Correttezza politica intrinsecamente intollerante. Autoritaria perché poco autorevole. Tabe che rende insensibili alla realtà, deformata da pregiudizi... Salvo rovesciare ogni colpa sui "populisti". Termine con cui le élite squalificano chi ne rifiuta lericette». Certo, «Trump ha catalizzato l'elitismo dei suoi avversari, esasperandolo», scrive Limes che aggiunge la solita serie di dure critiche allo stesso Trump. Ma poi ricorda quello che «le schizzinose élite liberal, incapaci di ascoltare i "deplorables", non vogliono sentirsi dire: i 75 milioni di voti per Trump, "il perdente più votato della storia americana", si spiegano anche con il fatto che sotto di lui la paga base della fascia salariale più bassa è cresciuta del 4,5%, il reddito mediano per famiglia salito dai 62.898 dollari del 2016 ai 68.703 del 2019». O con il fatto che «Trump finanziava college e università storicamente nere (Hbcu). Ed estricava di prigione circa 4 mila neri incarcerati sull'impulso ultrarepressivo del Crime Bill elaborato nel 1994 da tal Joe Biden"» e che nel settembre scorso «il 56% degli elettori affermava di stare meglio di quattro anni prima». Molte altre verità verranno fuori con il tempo. 

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