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Paola De Micheli e Lamorgese, "strage di ministre per niente". Il vero scopo del "rimpastone"

Fausto Carioti
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Cambiare tutto affinché Giuseppe Conte e la maggioranza rimangano dove sono. Anche stavolta la politica italiana torna lì, al colloquio tra il principe Fabrizio e Tancredi. Rignano sull'Arno come Salina. Sfrondata degli orpelli e delle supercazzole, la richiesta che il Gattopardo Matteo Renzi ha recapitato al premier e agli alleati è semplice: pretende la testa di Conte. Vuole che il presidente del consiglio si presenti dimissionario dinanzi a Sergio Mattarella, evitando lo scontro finale della conta in aula. Umiliazione totale dell'avversario, costretto ad ammettere che senza Italia viva non può esserci governo? Sì, proprio questo. In cambio, però, Renzi promette di riattaccargliela lui stesso, la testa. Subito dopo. Facendo da ostetrico alla nascita di un governo Conte 3, sorretto dalle stesse forze dell'alleanza giallorossa e allestito durante una breve crisi che lo stesso Conte dovrebbe "pilotare". La squadra dei ministri ne uscirebbe stravolta. Altro che rimpastino: via Azzolina, Lamorgese, Catalfo, De Micheli e chissà chi altro. Fuori tutti i pesi piuma e i più incapaci, dentro qualche calibro pesante. Quanto basta per poter annunciare un esecutivo di «costruttori», rubando così lo slogan al capo dello Stato. Volendo, Renzi potrebbe approfittarne per insediarsi alla Farnesina o al ministero della Difesa, possibili trampolini in vista del balzo a segretario generale della Nato, dove sogna di arrivare grazie al buon rapporto con Joe Biden e Barack Obama. Tutto già deciso, allora? No, niente affatto. Perché la proposta di Renzi sinora ha incontrato il gelo. Non si fida di lui Nicola Zingaretti, che già aveva tentennato al momento di dar vita all'attuale esecutivo, intuendo che il fiorentino avrebbe fatto vedere a lui e agli altri i sorci verdi. Soprattutto non si fida Conte, il diretto interessato. Una volta certificata la resa del premier e formalizzata la caduta del governo, chi potrebbe, infatti, impedire a Renzi di rinnegare l'impegno e puntare su un altro cavallo? Ad esempio l'ex presidente della Bce Mario Draghi, che proprio il leader di Iv ieri ha definito «una grandissima personalità»: perfetto per spendere i soldi europei in «debito buono» anziché nelle mance dei Cinque Stelle. Oppure Marta Cartabia, ex presidente della Consulta. Conte rimane quindi orientato sulla linea suggerita dal suo consulente Marco Travaglio: sfidare Renzi in parlamento accettando il rischio di far finire qui la legislatura, ma liberandosi - in ogni caso - dello scomodo alleato. Prima di arrivare a tanto, però, su consiglio dei democratici e dei terrorizzatissimi grillini proverà a cavarsela concedendo qualcosa di diverso dalla propria decapitazione. Anche per questo, nell'ennesima bozza del Tesoro sull'uso dei fondi europei per la ripresa, che sarà discussa oggi a palazzo Chigi, non vi è traccia dell'agenzia per la cybersicurezza che avrebbe fatto capo alla presidenza del consiglio, e aumentano un po' le risorse per la sanità e gli altri investimenti: richieste del Pd condivise dai renziani. Bastasse così poco. Se Conte non accetterà di dimettersi per imboccare la rischiosissima strada indicatagli da Renzi, il 7 gennaio saranno le ministre di Italia viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti a lasciare, aprendo una crisi al buio dalla quale potrebbe uscire in extremis anche un governo Conte 3, qualora si raggiunga un'intesa fuori tempo massimo, o un governone istituzionale sorretto da una maggioranza più ampia, o un esecutivo giallorosso guidato da qualcun altro, tipo il pd Dario Franceschini. Persino il voto a marzo, qualora i cocci non fossero più ricomponibili. Di sicuro, se Renzi toglierà a Conte l'appoggio dei suoi 48 parlamentari, al governo non basterà il soccorso interessato dei peones di Camera e Senato, ammesso che il presidente del consiglio riesca a trovarne a sufficienza. Mattarella osserva dal finestrone del Quirinale e aspetta di capire quale direzione prenderanno gli eventi, ma ha già fatto sapere che accetterà solo coalizioni politiche ben definite e non maggioranze raffazzonate.

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