Gigi Proietti, Vittorio Feltri: "Cosa aveva che non andava bene per il cinema italiano? Era libero"
Gigi Proietti una volta mi disse: «Se parlo con uno di destra, mi sento di sinistra, se parlo con uno di sinistra divento subito di destra». La prevalenza del cretino, in ogni schieramento politico, produce, nelle persone brillanti, effetti simili a quelli descritti magnificamente dall'attore romano. Ecco, preciso subito: voglio parlarvi di Proietti, non di partiti. Proietti è morto con uno sberleffo, lo scorso due novembre. È morto nel giorno dei morti, che per inciso era anche il suo compleanno, a 80 anni spaccati. Una uscita di scena così perfetta da sembrare sceneggiata da Proietti in persona. A Roma, e Gigi era un simbolo della romanità, la tragedia è teatrale, a volte sconfina nella commedia. Lo scetticismo sarcastico dell'Urbe non risparmia nemmeno la nera mietitrice. Anzi, la invoca spesso e volentieri: li mortacci... Sul palco, Proietti era un mago. Non aveva bisogno di testi, era sufficiente un canovaccio. Fu il primo in Italia ad affrontare la platea in completa solitudine.
Una volta giù dal palco, quel vulcanico istrione diventava umile e disponibile. A me gli occhi, please, clamoroso successo del 1976, era uno spettacolo complicatamente semplice: un uomo, Proietti, e un baule dal quale estrarre qualche oggetto di scena. Stop. Nessun testo. Andava a braccio. Da una parte il pubblico oceanico, confermato da una serata senza precedenti allo stadio Olimpico di Roma nel 2000; dall'altra il disincanto con cui la madre lo invitava «a non montarsi la testa» per gli applausi, che arrivavano pubblicamente anche da registi (Federico Fellini), colleghi (Edoardo De Filippo) e presidenti della Repubblica (Sandro Pertini). Una volta Proietti, ormai una star, chiese alla mamma: «Ti sono piaciuto?». E lei, laconica: «Abbastanza». Del resto, quando andò a trovare il suo vecchio parroco, certo di fare il pieno di complimenti e abbracci, fu accolto con uno scapaccione da don Parisio, che aggiunse «Ah brutto puzzone, solo adesso te rifai vivo?!». Altro che salamelecchi. Nei coccodrilli giornalistici, all'indomani della morte di Gigi, ho letto una cosa che mi ha colpito: a uno così, negli Stati Uniti avrebbero regalato le chiavi della Radio City Music Hall, che è un po' come dire le chiavi dell'Academy di Hollywood. Verissimo. Invece in Italia, perse la direzione del teatro Brancaccio, lo stesso che oggi gli vogliono intitolare. Non fece polemiche, si buttò a capofitto in una impresa unica, la fondazione a Villa Borghese del Globe Theatre, su modello di quello londinese che, secoli fa, vide andare in scena William Shakespeare in persona. Fu un altro, sorprendente punto a suo favore. E un altro regalo alla sua città, che lo amava alla follia, come forse il solo Alberto Sordi prima di lui. Non a caso, l'orazione funebre di Sordi fu affidata a Proietti. Che sfoderò un sonetto alla Belli, in romanesco, facendo commuovere mezza Italia, e anche un più di mezza.
IN TELEVISIONE
Le sue prestazioni televisive non le discuto. Mi limito a osservare un dettaglio (grandissimo, però). Proietti aveva cominciato come interprete "alternativo", doverosamente "con la puzza sotto il naso". Lo raccontava lui stesso, divertito: «Recitavo Sofocle, Brecht, Beckett, Moravia. Quando Garinei e Giovannini mi chiesero di sostituire Domenico Modugno in Alleluja brava gente temevo di vendermi». Pensa troppa cultura che danni può fare... Per fortuna Proietti non ascoltò la voce dell'intellettualoide, e prese la parte. Però cadde in depressione: «Anziché montarmi la testa, quel successo me la smontò. Non riuscivo a reggerne il peso. Mi chiusi in casa e mi ficcai a letto». Si abituerà. E ora vengo al punto. La carriera di Proietti, l'abbiamo visto, va da Sofocle al Maresciallo Rocca, dal Globe a Raiuno. L'attore "alternativo", un po' alla volta, verrà considerato uno di casa dall'intera nazione, il tutto senza perdere un grammo di credibilità artistica. Puoi essere pop o colto. Ma quello che conta è il talento, e Proietti ne aveva da vendere, qualunque cosa facesse. Vale la pena di ricordare che il Maresciallo Rocca è stata l'unica fiction, insieme al Commissario Montalbano, capace di rivaleggiare, in termini di ascolti, con alcune serate del Festival di Sanremo. Più popolare di così, è impossibile. Che differenza con le sedicenti stelle da filmetto impegnato, da pellicola col timbro ministeriale, da teatro "ribelle" rigorosamente finanziato dallo Stato, da comicità intruppata, da sceneggiatura a tesi. Il cinema italiano non l'ha mai valorizzato, al di là di qualche ruolo di culto. Eppure, l'anno scorso, l'ho visto giganteggiare nei panni di Mangiafuoco nel Pinocchio di Matteo Garrone. Una parte di pochi minuti in cui Proietti, perfetto, cancellava il resto del cast, pur eccellente. Cosa aveva, Gigi, che non andava bene per il cinema italiano? Il suo perfezionismo, inviso ai registi e soprattutto ai produttori, dicono in molti. La sua libertà, invisa a un mondo, quello cinematografico, che spesso si muove in gregge, e questo lo dico io.