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Coronavirus, Gianluca Veneziani contro i sinistri: "Mangiavano involtini cinesi e ora processano Londra"

Gianluca Veneziani
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 Deve essere la nuova forma di politicamente corretto, che potremmo definire geopoliticamente corretto: se l'epidemia arriva da Wuhan, guai a parlare di «virus cinese» e ad addossare responsabilità alla Cina; se invece una sua mutazione attecchisce in Gran Bretagna, non si fa che parlare di «variante inglese» e di quanto essa sia contagiosa. Che dio stramaledica gli inglesi, perché ci hanno mandato la versione aggiornata, 2.0, del Corona, chissà se per negligenza della Corona. Si vede che ai britannici non abbiamo ancora perdonato la Brexit, lo smacco insopportabile di aver lasciato ciò che resta dell'Unione europea; o si vede che, da quando al comando c'è Boris Johnson, che di Trump ricorda le politiche oltreché il taglio dei capelli, delle popolazioni d'Oltremanica si può dire peste e corna. Fatto sta che, non appena si è scoperto che una forma mutata del virus dilagava a Londra e dintorni, tutti in Europa, e soprattutto in Italia, si sono preoccupati non solo di chiudere le frontiere alla Gran Bretagna, come ragionevole, ma anche di sottolineare l'inglesità di questa variante. Evidentemente, per poter girare il mondo, il virus ha imparato l'inglese con accento british Basti vedere i titoli dei giornaloni e dei media mainstream.

 

 

Ieri il Tg1 delle 13.30 apriva con queste parole: «Covid, la variante inglese del virus è in Italia». Il Corriere della Sera teneva a specificare sotto il titolo ansiogeno «Virus cambiato» che il riferimento era alla «variante inglese»; e poi, sul sito, ripresentava in modo ossessivo l'espressione «variante inglese» nei titoli del pezzo di apertura e di due video. Faceva lo stesso Repubblica, ribadendo in modo seriale che si trattava della «variante inglese». E che dire degli esperti, o presunti tali. Walter Ricciardi, il consigliere del ministro della Salute Speranza, colui che l'altro giorno ha riconosciuto il fallimento della nostra gestione di contrasto alla pandemia, ieri ha gettato la croce addosso alla Gran Bretagna: «Purtroppo», ha tuonato, «il governo inglese ha avvertito tardi della variante del coronavirus e questo non è bello». Massì, dagli contro agli inglesi, per far dimenticare responsabilità altrui Anche il coro dei virologi da salotto tv non può fare a meno di sottolineare che la variante speaks English. Massimo Galli rileva: «Questa variante è in Gran Bretagna dal 20-21 settembre. Temo che da Oltremanica ne sia passata un bel po' da allora»; Giovanni Rezza parla di una variante che «sta circolando a Londra e nel sud-est dell'Inghilterra»; Franco Locatelli di «mutazioni segnalate in Gran Bretagna». Chissà perché nessuno ricorda che questa variante è stata individuata anche in Danimarca, Australia e Olanda, come ha reso noto l'Oms. Del resto, non c'era stata un'indicazione così puntuale di "nazionalità" quando si trattava di definire il ceppo originario del Corona. L'unico ad aver parlato di «virus cinese» era stato Trump, ma per questa ragione era stato accusato di xenofobia, tra gli altri dal Corriere che aveva scritto di un aumento degli «episodi di razzismo contro gli asioamericani», come conseguenza della sua strategia comunicativa. Ora invece additare i britannici di essere scellerati propagatori di virus non è discriminazione, ma forma di legittima difesa. Della serie: insulta la Perfida Albione, ma lascia stare il Dragone.

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