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Vittorio Feltri e il plauso al romanzo di Massimo Gramellini: "Non solo pandemia", la vita non è grama

Vittorio Feltri
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Massimo Gramellini è fulmineo e afferra sempre tutto, anche a costo di scatenare polemiche, perché la sua osservazione delle cose va per linee diritte, e non c'è complessità che possa rallentarne l'intuizione. Rileggo questa riga e mi accorgo che può sembrare una frase ironica, e invece è un attestato di stima, perché Gramellini è un giornalista di gran razza, e cogliere in fretta il nocciolo di una questione è la qualità capitale e rara dei fuoriclasse. Io ho un carattere abbastanza impaziente e apprezzo molto chi ha i doni dell'intuizione e della sintesi. Per questo sfogliando il suo nuovo romanzo, C'era una volta adesso (Longanesi, 277 pagine, 16,90 euro), mi sono sentito un po' a casa, e anche questo non è né ironico né un eufemismo: quanti di voi che leggono libri (ovviamente escludendo quelli brutti) si sono sentiti estranei, perfino inadeguati, oppure affascinati ma senza alcuna empatia con i protagonisti di opere letterarie celebrate? Con la narrativa di Gramellini questo non succede, come non capita mai leggendo le sue spigolature quotidiane sui fatti del giorno prima, da cui trae "minima moralia": prese nel loro insieme (le scrive da decenni sulla prima pagina prima della Stampa e ora del Corriere della Sera, e sono la cifra esatta delle sue qualità di "intuizionista") costituiscono un manuale d'uso di vita anormale per persone normali.

 

 

Il romanzo che ho appena chiuso è il racconto di un adulto che dal futuro rivede se stesso, che aveva nove anni nel 2020 e affrontava gli imprevisti e gli sconvolgimenti portati dalla pandemia. Il protagonista si chiama Mattia e la sua vita quotidiana di quell'anno (cioè questo) comprende tutte le piccole rivoluzioni d'ogni giorno viste con gli occhi di un cervello fresco e di un animo turbato: perché si ritrova prigioniero non solo della scuola al computer e di vicini diventati troppo occhiuti, e non solo perché ha a che fare con una sorella che adora e a sua volta ne è adorato (ma è indaffarata ad affrontare le paturnie amorose tipiche di una sedicenne in lockdown), e non solo perché è inseguito da una madre ansiosa e terrorizzata dal pericolo invisibile del virus. Soprattutto, la chiusura totale lo costringe ad avere a che fare con suo padre, che aveva abbandonato casa quando Mattia aveva tre anni. Mattia non lo ha dimenticato e lo detesta, ma papà adesso è lì, è arrivato per parlare con la mamma di divorzio e all'improvviso nessuno si può più muovere.

NIENTE DRAMMA
 In questa storia (il resto della trama la scoprirete da soli, leggendo il libro) non c'è traccia di disperazione, ma tutti i cliché che da febbraio ci nevrotizzano sono presenti: la claustrofobia, le videochiamate, il fattorino asiatico che spaventa la mamma, la scuola da casa, i segreti che non possono più rimanere segreti. La mamma di Mattia ha una specie di amante che incontra di nascosto al supermercato, papà ha una fidanzata giovane e bionda, e ricchissima, che "aveva visto mio padre e se l'era comprato", ma a quanto pare si è stancata di lui. Ci sono anche altri "personaggi tipici", oltre la mamma bella come una modella, con un nome russo e paranoica: per esempio Mattia ha un amico immaginario incarnato in un puff bianco e peloso che parla solo se ci si siede sopra, e una nonna scafata e brutalmente saggia, che cucina a raffica e parla per metafore lasciando Mattia con grandi punti interrogativi sopra la testa, ancora di più quando si abbandona alla sua ossessione, che il nipote faccia regolarmente la cacca. Gramellini ha il gusto della didascalia e molti dei capitoli cominciano con frasi scritte con mano sciolta, praticamente aforismi: «Un eroe ha sempre bisogno di una meta. Si mette in viaggio alla ricerca di qualcosa che gli manca o che gli è stato tolto. Non vuole diventare perfetto. Ambisce a ritornare completo». E ancora: «Non può esistere avventura senza l'archetipo dell'Imbroglione. Lui è il sasso nello stagno, il nemico della conservazione che raddrizza le cose storte e piega quelle dritte. Si muove senza seguire scopi precisi, animato soltanto dal piacere infantile di creare scompiglio, ma è proprio così che stimola il cambiamento». Ognuno di questi inizi è un strappo, Mattia si inoltra nella selva del rapporto con suo padre, impara a guardare le azioni e non ascoltare le parole, a districarsi, a gestire le novità, a usare la fantasia per maneggiare la realtà.

SOSEKI E FOER
 Gramellini lo spiega al lettore grazie alla scelta di un punto di vista doppio, l'adulto che guarda se stesso bambino e rivede la sua storia con gli occhi di entrambi. A uno scrittore riesce meglio spiegare quel che ha visto se lo fa vedere a qualcun altro, è per questo che lo spostamento della prospettiva su un evento traumatico usando come punto di riferimento un innocente non stupido (a un innocente si perdona tutto, e soprattutto gli si crede) ha lunghe tradizioni: Natsume Soseki scelse un gatto per raccontare il travaglio del Giappone ai primi del Novecento, che cominciava a transumare da una società feudale alla modernità (il romanzo è Io sono un gatto), e più di recente Jonathan Safran Foer in Molto forte, incredibilmente vicino ha scelto, per narrare l'America dopo l'11 settembre, proprio un bambino di nove anni che indaga nei segreti di suo padre, morto nell'attentato. È questo il potere della narrativa, indicare dove uno non stava guardando, spostarci a lato della paura e delle nevrosi che vengono a galla quando le abitudini e i legami sociali non riescono più a tenerle sotto la linea dell'orizzonte. Sono tutti temi che conosciamo, ma lo scrittore li propone riarrangiati, come una vecchia canzone che torna nuova nelle mani di un musicista che ne ha capito l'importanza, in modo tale che, mentre intorno tutto corre e mentre corre brucia, ci insegni ancora una volta qualcosa, va bene anche una piccola cosa, che non passa.

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