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Domenico Arcuri, l'affondo: via alle querele, il commissario fa il bullo anche con i giornalisti

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Iuri Maria Prado
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L'altro giorno, alla domanda di un cronista, il commissario Domenico Arcuri ha risposto così: «Mi asterrei dal risponderle, avendo già risposto per il tramite di una querela ai quattro contenitori informativi di cui le ho detto». Tradotto: guarda che ho già chiesto l'incriminazione di chi ha toccato l'argomento, piantala perché altrimenti tocca anche a te. Ora, la feccia che ci governa - sostenuta dalla maggioranza fascio-comunista che ha salvato la democrazia dalle elezioni, e presieduta da un disinvolto avventizio in debito di grammatica - una qualche forma di accreditamento costituzionale può ancora esibirla. Procede con decreti autocratici del capo, resi legittimi dalla farsa di un decreto di serie A che fa fare all'avvocato del popolo ciò che non potrebbe, e poi tratta il parlamento come la sede di un potere ormai esausto, una platea zittita da visitare un paio di volte al mese per illustrare a posteriori le meraviglie del modello italiano: però, almeno teoricamente, in questo andazzo c'è ancora qualche vaga rispondenza istituzionale, un governo che sta in piedi perché una maggioranza lo sostiene, con la possibilità per i cittadini di imputare a questa e a quello le cose che non vanno.

 

 

COMMISSARIO AI FALLIMENTI
Diverso è il caso di questo Arcuri, il super commissario delle mascherine calmierate e dei banchi di scuola ordinati domani per farli arrivare ieri. Gli spropositi gaglioffi di questo prepotentello, infatti, uno che si permette di definire «liberisti da divano» quelli che osano mettere in dubbio l'efficacia della sua gestione, devono passare incensurati perché lui non ne risponde a nessuno. Ci sarebbe, sempre in teoria, il suo capo, cioè il presidente del Consiglio, al quale competerebbe di contenere le esuberanze di questo torvo mandarino: ma in pratica succede semmai l'opposto, e sua eccellenza Giuseppe Conte ha con Arcuri il rapporto del signorotto di latifondo con il campiere che prende a bastonate i braccianti, lo lascia fare perché anche questo appartiene alla concezione di potere paternalistico-intimidatoria del clan di "Chigi", come dice l'altro amico dell'avvocato del popolo, l'esperto di depilazione ascellare Rocco Casalino. L'idea che la dotazione di potere, in democrazia, implichi la compostezza di chi si inchina davanti alla propria responsabilità, non la sfrontatezza di chi sta impettito davanti ai sudditi, è del tutto estranea al perimetro mentale di questa gente che minaccia querela quando il giornalista fa la domanda che non piace. E, emblematicamente, oggi in Italia il potere pubblico ha questo osceno profilo doppio: quello del principale azzimato che sforna comminazioni e quello del luogotenente che mena le mani.

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