Adriano Galliani a Senaldi: "Con il gol di Muntari sarebbe partito il quarto grande Milan di Berlusconi"
Una vita da tifoso, anni di fatica e botte e vinci casomai cinque Champions League, otto scudetti e altrettanti Palloni d'Oro. Sempre lì, lì in tribuna, finché ce ne hai stai lì. Adriano Galliani ha 76 anni, è senatore della Repubblica e un sacco di altre cose ma non ha ancora terminato la benzina. A differenza del mediano di fatica celebrato dalla canzone di Luciano Ligabue, non è «uno che finisce presto». In compenso, quando ha la palla tra i piedi, fa le cose in fretta. Un anno per portare il Milan allo scudetto e due alla Champions. Due anni per traghettare il Monza dalla serie C alla A, traguardo mai raggiunto dalla squadra brianzola nei suoi 108 anni di vita; se tutto andrà bene e la stagione si concluderà con la promozione, è la premessa, ma non ce n'è uno tra quanti bazzicano il calcio disposto a scommettere che non finirà così. Bando alla scaramanzia, neppure l'interessato, che garantisce di «aver approntato una squadra in grado di centrare l'obiettivo», fissato ufficialmente dal presidente Berlusconi, con il quale Galliani forma la coppia più vincente e duratura del pallone italiano.
E se casomai l'anno prossimo il Monza facesse gol al Milan, i tifosi rossoneri vedranno un'esultanza sfrenata alla Galliani o i festeggiamenti sobri dell'ex?
«Non ci casco. Il Milan è nel mio cuore in una maniera pazzesca. Ma le confesso questo: quando iniziai a lavorare con Berlusconi, il primo novembre 1979, nelle tv e non nel calcio, gli diedi la mia disponibilità giorno e notte, ma gli posi una condizione: poter seguire il Monza, di cui vicepresidente. Lui mi guardò come se fossi pazzo e acconsentì».
Mi ha risposto....
«Esulto nello stesso modo quando segna il Milan e quando lo fa il Monza, da sempre».
Troppo diplomatico....
«Se sono arrivato al Milan lo devo al Monza. Berlusconi mi ha scelto per il calcio perché sono stato vicepresidente dei brianzoli dal 1975 all'85, quasi sempre in B Monza».
Con il Covid è ancora calcio?
«Non è più quello di prima. Le partite hanno meno intensità e i valori sono alterati. Il calcio non è solo tecnica, ma anche emotività. Alcuni calciatori, senza i tifosi, si spengono e rendono la metà mentre altri, che si fanno intimorire dai fischi, ora giocano meglio. E poi è saltato il fattore campo, il che ha conseguenze importanti nelle coppe».
La serie A ha già perso 600 milioni, il Barcellona perde 5 milioni al giorno: il virus rischia di far fallire il calcio?
«Il calcio non fallirà, ma molte squadre potrebbero fallire perché il sistema ha avuto una contrazione dei ricavi di quasi il 25%, e non è finita. Mancano del tutto gli introiti dei biglietti, si riducono le entrate che arrivano dagli sponsor e dalla vendita di magliette e prodotti legati alla squadra e poi rischiano di venir meno molti soldi delle tv».
Come se ne esce?
«Il calcio è la quinta industria del Paese, il governo dovrebbe trattarlo come le altre aziende colpite dalla pandemia».
Soldi sui conti correnti come se le squadre fossero delle pizzerie?
«No, però almeno una dilazione delle imposte e crediti fiscali a chi sponsorizzano società sportive mi sembrano il minimo sindacale».
Improbabile. Non ci sono i soldi per i poveri e aiutiamo i milionari. Già mi vedo le proteste...
«Il calcio non è solo serie A. A primavera il 75% dei professionisti della C era in cassa integrazione. Significa che tre su quattro guadagnano meno di 50mila euro l'anno. Basta con il pauperismo d'accatto, siamo un settore dell'economia come gli altri, i calciatori sono lavoratori dipendenti con contratti a termine».
E stipendi da 60 milioni di euro l'anno...
«Quello è solo Cristiano Ronaldo, che però paga allo Stato 28 milioni di euro di tasse, spende in Italia, consuma in Italia. Chi porta i Ronaldo fa un favore al Paese, i ricchi fanno bene all'economia».
Non sarebbe il caso che i calciatori si tagliassero i lucrosi ingaggi per non affossare la barca che li rende ricchi?
«Il taglio non può essere imposto dalla Lega o dalla Federazione, perché si parla di rapporti di lavoro tra privati e nessuno ha diritto di intervenire. Sta alla società e al singolo calciatore. Certo, qualche sacrifico economico non guasterebbe».
Giacché parliamo di soldi, di chi è il Milan?
«Ho visto il servizio di Report, su Rai3, che insinuava dubbi sulla proprietà. L'ennesimo tentativo di colpire Silvio, anche a costo di infangare il Milan. Come quando insinuarono che la vendita ai cinesi fosse un'operazione per ripulire i quattrini di Berlusconi, facendoli rientrare dall'estero».
Non mi ha risposto...
«Il Milan appartiene per il 96% al fondo americano di gestione di investimenti Elliott e per il rimanente 4% a Blue Sky, la società creata dai due finanzieri napoletani che lavorano nella City londinese, Salvatore Cerchione e Luca D'Avanzo: l'hanno acquistato dal cinese Yonghong Li, un'operazione ultra trasparente, controllata e verificata più volte».
Da osservatore esterno: il Milan può vincere lo scudetto?
«Io non sono un osservatore esterno, sono pazzo del Milan. Non è che se sei amministratore delegato non sei scatenato come il più infervorato degli ultras. Ripeto: quest'anno il campionato è una lotteria, vince chi ha meno Covid. Ogni giorno è un bollettino di guerra».
La Juve sembra indebolita rispetto al passato, perde punti...
«Con Ronaldo in campo avrebbe battuto sia Crotone sia Verona. Pirlo è un predestinato. Quest' estate, dopo averlo visto in panchina con l'Under 23 bianconera, gli dissi che sarebbe diventato l'allenatore della prima squadra. Tre giorni dopo gli è arrivato l'incarico. Deve fare il suo esercizio, ma ha talento, sa tutto del calcio e si applica. Non fallirà».
È il suo rimpianto Pirlo, ceduto troppo presto e alla più forte?
«Prima di cederlo l'abbiamo preso dall'Inter e tenuto dieci anni. È vero, l'abbiamo dato troppo presto, ma i veri rimpianti sono altri».
La finale persa con il Liverpool a Istanbul nel 2005, suppongo?
«Partita incredibile, che abbiamo dominato tranne per i sei minuti in cui ci hanno fatto tre gol, i quali peraltro sarebbero stati inutili se l'arbitro non avesse annullato, per un fuorigioco inesistente, una rete di Sheva, al quale poi il portiere inglese ha parato con la testa una bomba da due metri. Però è una partita secca, può capitare. Istanbul è solo il secondo grande rimpianto, anche perché ci siamo rifatti due anni dopo, quando meritava il Liverpool ma abbiamo vinto noi con un gol di schiena di Inzaghi».
I gol di Inzaghi non sono mai casuali...
«Pippo me lo dice ogni volta che in realtà ha pilotato la palla. Io gli rispondo: sì tesoro, bravo».
Qual è il rimpianto vero?
«Il gol, regolarissimo, annullato a Muntari in Milan-Juve del febbraio 2012. Avremmo vinto il secondo scudetto consecutivo con Allegri e sarebbe cambiata la storia».
Capisco che è prima di ogni cosa un tifoso, ma non è da lei prendersela con gli arbitraggi...
«Nel calcio ci sono episodi che possono cambiare la storia di un club per due o tre anni. Se quel pomeriggio dell'ottobre '88 a Belgrado non fosse scesa la nebbia, non avremmo vinto la prima Coppa dei Campioni di Berlusconi e non sarebbe partita la nostra leggenda».
Questo non lo pensa davvero...
«Penso che avremmo vinto tanto, ma non in quel modo. Il ciclo sarebbe stato ritardato».
E cosa sarebbe cambiato se l'arbitro Tagliavento avesse convalidato il gol di Muntari?
«Avremmo vinto lo scudetto, non avremmo ceduto Ibrahimovic e Thiago Silva, due campioni che, a distanza di nove anni, ancora giocano ai massimi livelli. Saremmo potuti ripartire con il quarto grande Milan; soprattutto se mi avessero lasciato concludere l'acquisto di Tevez. Se fosse andata come dico io magari non avremmo venduto e forse oggi saremmo ancora lì. Invece Carlito l'ha preso la Juve, che con lui ha vinto tre scudetti di fila».
Ma allora anche l'Inter di Ronaldo, nel 1998, se gli arbitri Ceccarini, Rodomonti, Cesari...?
«Ok, lei è interista. Comunque sì: se avesse vinto quello scudetto, l'Inter avrebbe potuto aprire un ciclo».
Mi definisca i tre grandi Milan.
«Gli immortali di Sacchi, gli invincibili di Capello e i meravigliosi di Ancelotti».
Il suo 11 rossonero ideale?
«Impossibile dirlo, abbiamo avuto troppi campioni. Le posso dire però che il più grande di tutti è stato Marco Van Basten».
Per questo l'ha spuntata su Sacchi, che è dovuto emigrare?
«Ahahahahahaha. Questo non me lo può mettere in bocca».
E Ibra, non è così forte?
«È un giocatore immenso».
Non ha mai vinto il Pallone d'oro...
«È rimasto incastrato nel dualismo Ronaldo-Messi. Era difficile entrare in questa logica. E poi bisogna vincere la Champions».
L'ultima italiana a vincerla è stata l'Inter, che ora sulla carta è la più forte, ha l'allenatore più pagato ma non ingrana...
«È tutto ancora da vedere».
Che giocatore italiano le piace oggi?
«A parte Gigio Donnarumma, che è stratosferico, dico Locatelli, che era nostro e ora è a Sassuolo. Per me è uno dei più forti centrocampisti in Europa; molto completo, imposta e ruba palla».