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Rudolph Giuliani, il sindaco eroe di New York viene bullizzato solo perché è con Donald Trump

Simona Bertuzzi
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Capite signori, il sindaco eroe delle torri gemelle Rudy Giuliani si tinge i capelli di nero e un rivolino di colore gli scivola impunemente sulla guancia sudata durante un'accalorata conferenza stampa nella quale, in veste di responsabile del team di avvocati di Donald Trump, tenta di dar conto dei brogli elettorali che avrebbero condotto a parer loro alla vittoria del democratico Joe Biden. Fossimo in un mondo normale, la notiziola avrebbe portato via una riga di qualche giornalino gossipparo di provincia, o preso i titoli di coda di uno show comico alla David Letterman. Ma nell'America che ha votato Biden e nel mondo che la guarda da lontano con quel misto di sudditanza e invidia, infarcito da un bel po' di incazzatura contro Trump, la tintura ha assunto proporzioni incredibili, al punto da diventare pretesto di un vera operazione di body shaming (come si definisce il malcostume di irridere i difetti fisici di una persona) attuata dalla stampa e dai social di mezzo mondo, neanche il tingersi i capelli fosse il peggiore dei delitti. O dei mali. Per capire come si sia arrivati a questa operazione di demolizione del capello nemico (cominciata col ciuffo indomito di Trump ma evidentemente avida di nuovi tormentoni), occorre ricordare chi sia Giuliani. 

 

 Rudolph è stato il sindaco di New York durante l'attacco alle torri gemelle. Gestì il momento più drammatico della storia americana. E aiutò una città prostrata dalla paura a rimettersi in piedi e ripartire (e per questo fu nominato uomo dell'anno). In passato aveva collaborato con Falcone e Borsellino. Il sindaco del pugno duro, della tolleranza zero, del bastone e della carota. Poi però - e questa è storia recente - Giuliani ha scelto di schierarsi con Trump e diventare il capo del team degli avvocati del presidente uscente e magnate americano. Qui sono cominciati i suoi mali. E ha avuto origine l'attacco al suo capello artefatto. Al punto che ieri qualcuno ricamava sull'infelice parabola del grande politico che era stato, e ironizzava: "Dalle torri gemelle alla tintura, la fine di Giuliani". In tutto questo, quale fosse il senso e il contenuto dell'attacco di Rudolph è finito in secondo, terzo, quartultimo piano. Eppure l'avvocato di Trump di cose ne ha dette. Per esempio, ha raccontato di aver «centinaia di dichiarazioni giurate di addetti elettorali negli stati chiave pronti a testimoniare che sono state commesse irregolarità e frodi». Ha parlato «di un piano centralizzato per condurre queste frodi in città controllate dai democratici». Ha puntato il dito contro Philadelphia e Detroit «che hanno una lunga storia di corruzione». Il 3 novembre ha detto «si sono tutti svegliati e hanno avuto la stessa idea di mettere gli scrutatori repubblicani nelle tende e tenerli fuori durante lo scrutinio dei voti postali? È possibile che abbiano avuto contemporaneamente lo stesso pensiero a Pittsburgh, Philadelphia, Detroit, Milwaukee, Las Vegas e Phoenix?

 

 

 

La conclusione logica - e un giudice concorderebbe con me - è che qualcuno avesse elaborato questo piano». Non solo: Giuliani ha parlato di dichiarazioni giurate secondo le quali «in Michigan e Pennsylvania agli scrutatori era stato chiesto di assegnare schede anonime a elettori presi a caso, che poi si sarebbero recati alle urne scoprendo che a loro nome erano già state inoltrate schede». Ha attaccato direttamente Biden e poi ha fatto un passo indietro («non so se sia conscio o meno dei brogli»). Ma tutto questo è passato in secondo piano per la stampa che sente ripetere le lamentele da tempo e rimprovera a Giuliani di non aver ancora portato le prove per sostenere simili accuse. E dunque nessuno gli ha risposto nel merito e dunque tutti hanno criticato la tintura dei capelli che scivolava via mentre un rigagnolo scendeva sulla guancia. Dalla politica alla sedia del barbiere il passo è breve. «Giuliani si sta squagliando» il commento più benevolo. E c'è chi ha invocato una verifica della tinta oltreché delle fonti. 

Il personaggio non se ne avrà a male, presumiamo, ne ha passate troppe per soffrire dei bulletti a mezzo stampa. Pensate però se la stessa cosa fosse successa a un uomo dello staff di Biden. Un democratico. O peggio a una donna, la sua vice magari. I democratici tutti avrebbero gridato allo scandalo, spalleggiati dalla sinistra di casa nostra. Ricordate il polverone sollevato contro Striscia la notizia che aveva irriso il ciuffo scomposto della Botteri. Ci schierammo tutti in difesa dell'inviata e giustamente. Ma un conto sono i personaggi cari alla sinistra. Un conto il resto del mondo. L'operazione body shaming, ormai nota come attacco al capello tinto, non è stata contestata perché la vittima anzitutto è un uomo, e nell'universo impomatato del politically correct gli uomini contano diversamente rispetto alle donne. Per giunta è un uomo di Trump, un repubblicano. Quindi dagli al capello, alla tintura che scivola sul viso accaldato, all'umiliazione del vecchio leone che non si arrende all'età che avanza e vuole sembrare il giovanotto ruggente dei tempi della grande mela. Non sarà che il dileggio nasconda l'assenza di argomentazioni politiche? Colpire il nemico nel suo difetto fisico perché lunga, tortuosa e civile è la via della discussione politica. Peccato che il mondo sia pieno di uomini tinti. Alcuni eccelsi altri piccoli e insignificanti. E giocare sulla chioma che si perde via o si colora di gioventù è un'usanza vecchia come il mondo, anzi tinta di malafede e cattiveria falsamente vendute come arguzia e ironia. 

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