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Sinisa Mihajlovic, polemica a Bologna: la sinistra gli chiede di rinnegare il suo essere serbo

Giovanni Sallusti
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L'ultima della sinistra è la cittadinanza onoraria previa abiura. È ancora da stabilire se il reprobo, per accedere al premio e alla riabilitazione piena, debba sottoporsi a ventiquattr' ore di gogna pubblica. Nel caso, la cerimonia di espiazione si terrà in piazza Maggiore. Perché questa storia viene da Bologna, profondo rosso dell'ideologia italica. Il protagonista, suo malgrado, è Sinisa Mihajlovic. L'allenatore della squadra locale, che ha combattuto da eroe riluttante il mostro della leucemia e innescato un legame viscerale con un pezzo di città. Sfortunatamente per lui (ma immaginiamo se ne farà una ragione), non con i burocrati di sezione, non con le anime belle imprigionate dentro l'eskimo dagli anni '70, non con l'intellighenzia progressista, quanto di più oscurantista oggi esista. Accade che Sinisa (in teoria) abbia ricevuto la cittadinanza per essersi «distinto come essere umano prima ancora che come sportivo o allenatore».

Il consiglio comunale votò compatto a fine luglio, 26 componenti su 29, compreso il sindaco dem Virginio Merola. il diktat Un'ovvietà umana, che ora viene messa in discussione a pochi giorni dalla consegna ufficiale, tramite "lettera-appello" vergata da un centinaio di firme del bel mondo partitico-cooperativistico-culturale emiliano. Tra queste, i consiglieri regionali Andrea Costa (Pd) e Silvia Zamboni (Verdi), don Luigi Ciotti, Fabio Anselmo (avvocato del caso Cucchi), il regista Paolo Billi, il musicista Massimo Zambon, Valentino Minarelli (segretario Spi-Cgil Bologna). Nella sostanza, un perentorio dispaccio del Politburo, con le istruzioni su cosa fare per essere ammessi nella Repubblica dei giusti e degli omaggiati, cioè la loro. «Egregio sig. Mihajlovic», debuttano i compagni con un'empatia pari a quella dei congressi del Pcus sotto Breznev, «è nostra convinzione che parte del suo passato, da lei mai ritrattato, renda un grave errore per tutta la comunità bolognese e italiana il conferimento di questa onorificenza». Pur senza nominarlo, gli inquisitori si riferiscono al rapporto, che in una fase fu anche di amicizia, tra Mihajlovic e eljko Ranatovic, detto Arkan la Tigre, criminale di guerra serbo che durante gli anni della disgregazione della Jugoslavia si diede alla pulizia etnica e ad efferatezze stomachevoli contro la popolazione civile. Tra persone perbene non andrebbe neanche detto, ma visto che la censura politicamente corretta è tutto tranne che perbene, tocca farlo: chi scrive giudica Arkan un macellaio la cui traiettoria (dis)umana non è minimamente riscattabile. Lo stesso Sinisa ieri si è espresso così in un'intervista al Corriere: «Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita». C'era la guerra, esimi appellanti in poltrona, peraltro figlia della follia autoriaria e centralista titina, che impose l'unione forzata a popoli diversi in nome dell'ideologia comunista (ma su questo dettaglio da parte vostra non si è sentita una sillaba di autocritica in tre decenni). C'era la guerra, e per uno strano incrocio esistenzial-calcistico belgradese, il serbo Mihajlovic si ritrovò un amico a combattere (oscenamente, ora lo sappiamo) dalla parte dei serbi. Non rinnegò, anche perché conosceva turpitudini analoghe compiute dall'altra parte su suoi compatrioti, parenti, amici.

 

 

LA GUERRA
C'era la guerra, uno schifo, il collasso dell'umanità. Sinisa non rivendica le azioni politico-militari di Arkan, Sinisa è un uomo cresciuto e arrivato al successo nella libertà, nella pace, nella democrazia, come potrebbe? Ma non sputa sul cadavere, non mente a se stesso e alla storia, non capovolge l'amicizia personale che c'è stata nell'inimicizia a posteriori, a comando, nel tradimento in assenza del tradito. È per questo, che Sinisa è un uomo. Se volete dargli la cittadinanza onoraria, dovete darla a lui, non al suo santino buonista e rieducato. Anche perché uno che ha guardato in faccia il mattatoio balcanico e l'abisso della leucemia no, non si fa rieducare.

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