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Giorgia Meloni, il consiglio di Alessandro Giuli: "Non si candidi al Campidoglio, ma a Palazzo Chigi"

Alessandro Giuli
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C'è una ragione invalicabile per la quale Giorgia Meloni non dovrebbe candidarsi sindaco di Roma nel 2021: stravincerebbe di sicuro e saprebbe immergersi nel lavoro capitolino con dedizione, certo, ma di Giorgia ce n'è una sola e ha già una dimensione e un ruolo indispensabili. Tali da non consentire passi falsi o cedimenti a trabocchetti e tatticismi di retrovia. È scontato che Roma meriti idealmente un sindaco di altissimo livello tecnico e culturale, una sorta di dictator plenipotenziario alla maniera dell'Urbe antica quando si trovò in stato di calamità bellica o politica: una figura di rottura e di concordia inattaccabile, ben diversa dal tribunato della plebe autoassegnatosi dal pur bravo giornalista Massimo Giletti o da analoghi personaggi. Il centrodestra ancora fatica a trovarla, però un punto di caduta si troverà e sarà comunque meglio del nulla vigente (Virginia Raggi) o dell'offerta improvvisata e divisiva delle sinistre sospese tra scelte di nomenclatura e outsider come Carlo Calenda.

Ma il punto qui è Giorgia, la cui leadership è protagonista di una proiezione internazionale senza precedenti solennizzata dall'elezione alla presidenza dei Conservatori e Riformisti europei, un traguardo che al tempo stesso vale come rampa di lancio per un'azione unificatrice di lunga gittata che possa condurre il sovranismo democratico nel nuovo schema bipolare prodotto dalla conversione post rigorista dell'establishment assediato dalla pandemia. Un'occasione la cui irripetibilità è divenuta materia di confronto anche nella Lega. In questo contesto, la Meloni rappresenta una storia politica sperimentata «di lotta e di governo» e personifica un modello istituzionale attrezzato alla necessità del momento: i suoi avversari più autorevoli le riconoscono di aver svolto un solido lavoro come vice presidente della Camera nel periodo 2006-2008, gli annali della Repubblica ci ricordano che Giorgia è stata ministro della Gioventù tra il 2008-2011. Di lì in poi, raccolte le ceneri esigue della destra finiana implosa su se stessa lungo la via del complotto antiberlusconiano e della conseguente dittatura commissaria dei tecnocrati bocconiani, la Meloni ha ricostituito un tessuto umano e identitario disperso e lo ha rimesso al centro della scena. I risultati, perseguiti con pazienza e tenacia, sono infine arrivati dentro e fuori le urne innalzando i Fratelli d'Italia al rango di una nuova grande destra a vocazione maggioritaria.

E non è un caso che in questo ragionamento si stia utilizzando la parola «centro», che per la prima volta dopo numerosi lustri cessa di essere il luogo del trasformismo democristiano per diventare lo spazio metapolitico appetibile da una destra irrobustita dall'opposizione alle oligarchie globaliste ma capace di parlare al mondo liberal-conservatore dei settori più dinamici della società (imprenditori, commercianti, partite Iva) tradizionalmente identificati come i «moderati». Ci riferiamo anche al collegamento sempre più radicato con i circuiti della rappresentanza sociale, di cui la destra ha impugnato stabilmente lo stendardo a protezione d'interessi territoriali ramificati su scala nazionale. Un esito per molti versi inatteso, reso possibile non soltanto dalle ottime capacità comunicative di Giorgia, fondate su criteri di coerenza e affidabilità professionale, ma anche da un posizionamento strategico tutt' altro che scontato nella stagione ormai residuale dei populismi antisistemici, come dimostra la lungimirante partecipazione a Washington, nel 2019, alla Conservative Political Action Conference (Cpac).

 

 

E con ciò torniamo a Roma. È in atto un tentativo pigro o (male) interessato di costringere la Meloni al testacoda di una candidatura per il Campidoglio dai rivolti illogici e nocivi alla causa comune. Dai più acuti pensatori di parte avversa come Massimo Cacciari ai soliti alleati alla ricerca di punti deboli nei quali insinuarsi, fino a meno noti esponenti della nomenclatura interna a Fdi animati da ambizioni personali, è in atto una formidabile pressione affinché Giorgia ritorni grosso modo al punto di partenza della sua felice cavalcata post finiana. Nella migliore delle ipotesi questa è una trappola concepita in buona fede. Nessuno ha dimenticato lo spirito di servizio con il quale lei si è sacrificata in extremis nel 2016 tuffandosi nel gorgo di una sfida fratricida, in una coalizione divisa tra pulsioni consociative e istanze di rinnovamento: Forza Italia propose Guido Bertolaso, quindi s' incaponì su Alfio Marchini, il risultato fu la sciagurata vittoria della Raggi contro una sinistra debole e un centrodestra dilaniato. Oggi tutto ciò non sarebbe possibile, perché nel frattempo i rapporti di forza si sono capovolti e il diritto di prelazione spetta dalla destra. Ma questo è possibile appunto perché Giorgia questa destra l'ha proiettata fuori dal Raccordo anulare, conquistando consensi e governando Comuni e Regioni; nonché attraendo la curiosità, la fiducia o le aspettative di osservatori neutrali legati all'establishment finanziario conservatore. Indietro non si può tornare. E non perché Roma non meriti una cura civica straordinaria, di un carattere che diremmo «sanitario» oltreché politico, ma perché è inimmaginabile soffocare adesso questo capitale di energie correndo il rischio di dissipare la fase ascendente del ciclo biopolitico d'una nuova destra chiamata non più a rigenerare se stessa ma a guidare l'Italia. L'Urbe Eterna tornerà a essere la vetrina mondiale per leadership in crescita o figure impolitiche attempate e carismatiche. Tuttavia la strada è lunga e Palazzo Chigi, più che il Campidoglio, è oggi il luogo naturale della Meloni. Da ultimo. L'emergenza mondiale provocata dal coronavirus e dalle sue ricadute economiche ha riscritto l'intero ordine del discorso globale. Lo stato d'eccezione rende necessaria la presenza di leader eccezionali e di caratura internazionale: la posta in gioco è altissima e la si deve giocare sul tavolo della grande politica, uscendo dalla dimensione complessiva dei governati a caccia di un riscatto, per affermare una presenza di statura istituzionale. Il rinnovato protagonismo dello Stato esige uomini e donne di Stato incardinati nei centri vitali e apicali delle democrazie d'Occidente. La scommessa di Giorgia è qui, non altrove. 

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