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Massimo Giletti, Francesco Bellomo: "Quando deciderò di parlare, lui sarà il primo"

Francesco Bellomo
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Conoscete Lupo? Immagino di no, e di certo non l'avrei conosciuto neanch' io, se non fosse che da quasi tre anni me lo ritrovo in hotel, per strada e sotto casa. Il più delle volte è sufficientemente educato, ma comunque molesto e pronto a tutto pur di ottenere il risultato, ossia una mia intervista. La tecnica è quella di un certo giornalismo, che viene definito d'inchiesta, ancorché con la verità - che dell'inchiesta dovrebbe essere lo scopo - abbia poco a che fare. Più noto dell'esecutore è il mandante: Massimo Giletti. Il brillante conduttore ha deciso che periodicamente deve parlare - male - di me, forse perché altrettanto periodicamente rifiuto di andare alla sua trasmissione (come, invero, alle altre), e di farlo con le solite due ospiti, che recitano un copione già scritto, variandone ogni tanto i particolari. Le due hanno in comune tre cose: frequentavano le mie lezioni, volevano diventare borsiste, non ci sono riuscite.

Una delle due è passata dallo scattarmi (di nascosto) foto con i cuoricini a mandarmi frecciatine in televisione; l'altra finge di aspirare alla magistratura e di scandalizzarsi se io preparo gli studenti a vincere il relativo concorso. Alla decima puntata in argomento mi sono rotto le scatole e le ho sbugiardate pubblicamente. Pensavo che Giletti avrebbe chiuso lì. Mi sbagliavo. Avuta notizia della ripresa dei corsi, ha sguinzagliato il cane segugio (Lupo, appunto), per l'ennesima incursione ad una mia lezione. Il fedele scudiero, però, non ha considerato che c'è un'epidemia in giro e non è saggio parlare a decine di persone riunite in una saletta. Sicché non ha trovato nessuno e - per non tornare a mani vuote - ha ripiegato su una citofonata a casa di mia madre, nella quale sostanzialmente le ha detto che io non avrei dovuto più insegnare. La vicenda suggerisce tre riflessioni. La prima viene dalla voce che vuole Giletti prossimo candidato a sindaco di Roma per la destra. Poiché l'interessato non l'ha smentita, faccio come fa lui: la prendo per vera. E mi domando non cosa c'entri Giletti con la destra, ma cosa c'entri la destra con lui, al di là della moda delle citofonate alle private abitazioni. Una forza politica dovrebbe contraddistinguersi tanto per le idee, quanto per gli uomini che la rappresentano, e pretendere coerenza tra le prime e i secondi. Se la destra fa del garantismo la sua bandiera, le trasmissioni di Giletti sono l'esatto contrario, financo nel nome: «(non) è l'Arena». 

La seconda si collega a un recente episodio che ha visto protagonista una giornalista di Libero, querelata da un sottosegretario all'interno per un articolo in cui ne tratteggiava la figura politica. Giustamente il direttore Feltri ha osservato come il fenomeno delle querele da parte dei politici ai giornalisti - anche quando non c'è materia - dissimula un attacco alla libertà di stampa, costituendo un "avviso" per casi futuri: non criticare, altrimenti ti porto in tribunale. Allo stesso modo, però, il fenomeno dei servizi giornalistici d'aggressione realizza un attacco a libertà non meno importanti, costituendo un analogo "avviso": non insegnare, altrimenti ti sputtano in televisione. La terza è la più seria e riguarda il corto circuito mediatico-giudiziario, che puntualmente si verifica non appena si profilano casi che destano l'attenzione collettiva, non sempre per nobili finalità. Il diritto non è meno complesso della matematica (con la quale, anzi, presenta diverse affinità), quindi non può essere affrontato come se si parlasse di gossip. Servono intelligenza e conoscenza dei fatti. Poiché, per definizione, i fatti li conosce solo chi al processo partecipa, è molto probabile che, quando all'esterno ci si occupa di casi giudiziari, gli errori abbondino, quasi sempre nella stessa direzione: contro l'accusato. Il quale, però, ciò che non può fare è proprio difendersi fuori dalle aule di giustizia. Così nasce e si cristallizza una verità parallela, che anticipa e sostituisce nelle menti del popolo quella processuale, con un duplice effetto negativo. In primo luogo il discredito sociale, che compromette l'esistenza della persona interessata per tutta la durata del processo (cioè anni); in secondo luogo il condizionamento delle decisioni giudiziarie.

 

 

Così descrive il fenomeno uno dei più grandi giuristi italiani viventi: «Viceversa il giudice "missionario" e quindi infedele alla legge, scrive prima il dispositivo in base alle proprie opinioni pre o extragiuridiche e poi va alla ricerca di una motivazione come che sia onde la pretesa soluzione "giusta" o "equa" altro non è se non l'espressione del puro e personale arbitrio». Universalmente noto come "pregiudizio", questo modo di procedere costituisce un vizio cognitivo, che produce nel ragionamento giudiziario una fallacia "a posteriori": la conclusione precede l'argomentazione. La decisione è d'istinto, la motivazione è razionale. Ma non si può giustificare con la ragione ciò che l'animo comanda. Pochi giorni fa, a proposito di un noto processo, su queste colonne scrivevo: «tra tutti i corpi dello Stato, la magistratura è quello mediamente più preparato, aduso sin dai primi studi a sviluppare le doti della conoscenza e della tecnica, ma la neutralità, l'immunità da preconcetti morali, la capacità di orientarsi in base alla logica e non ai sentimenti, sono uno stato dell'intelletto difficile da raggiungere». Il giudizio normativo è inevitabilmente esposto al rischio di subire i condizionamenti tipici di ogni umano pensiero: passioni, emozioni, ideologie, interessi. La pressione mediatica accresce questo rischio. Se poi di mezzo ci sono le donne, la tentazione di ergersi a missionario può apparire irresistibile. Una cosa è certa: quando deciderò di raccontare i fatti, la prima persona da cui non andrò sarà Massimo Giletti.

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