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Giancarlo Giorgetti, il retroscena di Alessandro Giuli: guarda al centro ma ha nostalgia del nordismo. E pensa al dopo-Salvini

 Giancarlo Giorgetti

Alessandro Giuli
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Che cosa voglia davvero Giancarlo Giorgetti è un mistero così poco perscrutabile che perfino lui ha rinunciato a indagarlo. Chi lo conosce appena sostiene che il numero due della Lega sia ormai seduto sulla riva del fiume ad attendere il manifestarsi del cadavere politico salviniano. Chi ha più confidenza con questo cinquantatreenne ragazzone varesotto, figlio di Cazzago Brabbia e dell'eterno fatalismo dei pescatori di lago come suo padre, intuisce che Giancarlo non siede affatto sulla riva del fiume, perché è lui stesso il fiume che da sempre scorre sinuoso, aggira gli ostacoli e scava l'alveo in cui ogni timoniere ha avuto l'opportunità di navigare sopra il senescente veliero leghista. Da Umberto Bossi a Matteo Salvini passando per Roberto Maroni, i leader della tribù padana non hanno fatto e non fanno altro che affidarsi alla liquidità politica di Giorgetti e servirsi di lui fino a dipenderne.

Se poi la barca scuffia e si ribalta, se poi il capitano del momento ruzzola preda di alghe e pescecani, nondimeno il corso d'acqua continuerà a scorrere con un percorso anche estenuante ma comunque diretto a una foce precisa: lo sbocco nel golfo dell'autonomia o, perché no?, del secessionismo. La verità, ove mai vi sia una verità in Giorgetti, è che a lui dell'Italia non gliene può fregare di meno. Altro che Lega nazionale, felpe tricolori, liturgie risorgimentali Gli italiani, quelli gli andrebbero pure a genio se solo si facessero padanizzare a dovere. Ecco il punto: polenta e birra e rutti padani, lunghi silenzi montani, qualche pigra telefonata e tanta, tanta pazienza per sopportare il navigatore matto del momento che gli sgroppa sul testone occhialuto di plebeo che ha studiato, di paludoso bocconiano con la voce che invecchia alla maniera di Umberto anche senza l'aiuto del sigaro toscano. Eccolo Giorgetti, anzi rieccolo perpetuamente uguale a se stesso. tipo eccentrico I ritrattisti insistono sulla sua eccentricità rispetto al Palazzo della politica; ne accentuano la passione per il calcio e in modo speciale per il Southampton, il club dei terroni portuali britannici; inoculano nel circuito mediatico la doverosa sensazione che Giggì (così per gli intimi o sedicenti tali, ma lo sapete già) sia un moderato con entrature formidabili nell'establishment occidentale, da Mario Draghi in giù. Il che è vero in parte ma sopra tutto fa parte del Giorgetti percepito, diciamo, ovvero di quel che lui sornione e bradiposo vuol farci credere.

 

Oggi si dicono tante cose di lui, anche perché lui sta parlando molto ed è una cosa alla quale non siamo abituati. Dopo aver contraddetto il parere favorevole di Salvini sul referendum per l'abolizione dei parlamentari, ora va affermando in giro che la Lega deve guardare al centro prima che il centro, rianimato dalla svolta proporzionalista, finisca per vendicarsi sulle ali estreme; e perfino che si dovrebbe aprire una trattativa con l'Europa dei Popolari (martedì i due capi riuniscono apposta l'eurogruppo leghista), per non lasciare alla conservatrice Giorgia Meloni il primato nazionale dell'intelligenza nel leggere il cambio di schema in corso nel mondo post Covid.

Di suo sarebbe muto per vocazione e invece ora ammonisce di qua e allarma di là, Giorgetti, con la piatta saggezza del buon senso, delle cicatrici e delle furbizie nate dall'esperienza. È sempre stato il benvenuto ad Arcore, nei lunedì delle cene berlusconiane con Bossi, malgrado la barba mal rasata e l'aria da paesano stazzonato. È diventato perfino il cocco del presidente Giorgio Napolitano, il primo comunista filoamericano, nella stagione dei saggi che fu il prologo delle larghe intese nel 2013. Ma chiedetegli quanto poco se lo sono filato gli americani che contano, cinque anni dopo, quando è tornato negli States a chiedere aiuto per conto di Salvini fingendo confidenza con i veri ricchi del Pianeta e con la loro lingua perché non vai alla guerra col mondo dei potenti se non hai almeno qualche potente dalla tua parte, il sovranismo senza Deep State è come una baionetta contro i carrarmati o come un giornalino colto di quattro pagine di fronte all'urgenza di uscire dalla clandestinità culturale con una strategia seria, non con i soldatini e i quadranti immaginari dei giochi da tavolo.

Vedi l'Armata Brancaleone dei gialloverdi, un governo nato nell'estate 2018 con il via libera telefonico di Draghi: «Ho parlato col demonio, l'accordo con Mattarella lo facciamo ma senza Paolo Savona all'Economia», si rassegnò Giorgetti dopo aver allertato e terremotato varie altre figure di eccelsa o inattuale grandezza, ma già rassegnato a un periodo d'infeconda follia: «Beati voi che potete farne a meno», scriveva in privato agli amici del centrodestra rimasti esterrefatti a guardare la scappatella di Salvini con Di Maio. decifrare il futuro Ma questo è passato remoto. Adesso si tratta di capire se dopo Matteo ci sarà ancora Matteo oppure no, magari Luca Zaia che tuttavia preferisce imperare nel Veneto piuttosto che vegetare a Roma.

 

E allora? Giorgetti non agisce granché, piuttosto scorre fino a lambire un sogno cattivello: proporre alla Meloni una Yalta su ciò che resta di Forza Italia, lasciando a Giorgia quel centrosud mai capito né concupito da quelli come lui e in cambio arrogandosi il diritto di sbarrare la linea gotica per secedere riccamente da Roma di fatto se non di diritto. Poi lui a Roma ci tornerebbe, come ha sempre fatto dacché sta in politica, con un letto pronto fra preti e suorine di convento, giusto il tempo di tessere la rete della sua indispensabile inconcludenza. 

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