Matteo Salvini e la Lega, "cambio di strategia in Europa": il retroscena di Alessandro Giuli
Se non è già una schiacciante vittoria di Matteo Salvini, e a occhio si annuncia come tale, per lo meno la vicenda Gregoretti si è rivelata al primo colpo in tribunale un suicidio (male) assistito da parte d'un governo con la coscienza maculata di grigio. All'indomani della prevista udienza preliminare al Palazzo di giustizia di Catania (poi rinviata al 20 novembre), l'ostinazione con la quale la maggioranza giallorossa ha mandato a processo il leader leghista per il presunto sequestro aggravato di persona si sgretola su due gustosissimi paradossi. Numero uno: come per la difesa, anche secondo la Procura Salvini è tecnicamente innocente poiché non si ravvisa alcun «luogo a procedere contro di lui». Parola di pubblico ministero, e che già di per sé dovrebbe rappresentare una pietra tombale sull'intera messa in scena. Numero due: per la prima volta, un giudice dell'indagine preliminare non si avventura in una chiamata in correità di altri soggetti per affossare l'accusato ma sperimenta una sorta di pazzotica «chiamata in innocenza» (sempre dal punto di vista salviniano) portando sul banco dei testimoni i coprotagonisti del governo gialloverde impegnato a far rispettare il noto divieto di sbarco risalente al luglio del 2019. Ovvero il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il suo ex vice Luigi Di Maio e con loro gli ex ministri dei Trasporti e della Difesa, Danilo Toninelli e Elisabetta Trenta, più naturalmente l'attuale ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese: tutti convocati dal Gup Nunzio Sarpietro in autunno inoltrato. Risultato: l'esecutivo ribaltonista dovrà scegliere se condannare se stesso pur di provare a condannare Salvini oppure uscirne pulito grazie al sopraggiunto candore dell'ex capo del Viminale certificato per sentenza. Un capolavoro goldoniano, figlio della tragicommedia e del melodramma politico nazionale.
Una linea condivisa - Ciò detto, giova ricordare agli sventurati attori riuniti intorno al bis Conte che erano stati messi in guardia fin dapprincipio sulla figura meschina cui andavano incontro. Ripertichiamo dunque l'eloquio dell'insigne costituzionalista e anti sovranista Sabino Cassese, intervistato a suo tempo su questo giornale dal direttore Senaldi: «Se un ministro dell'Interno segue un orientamento, quello non può che esser un orientamento governativo. Il ministro dell'Interno è troppo importante per pensare che, quando si esprime lui, non si esprima il governo. Basti pensare che dall'Unità d'Italia fino a uno degli ultimi governi De Gasperi (con una breve parentesi in periodo fascista) le cariche di ministro dell'Interno e di presidente del Consiglio dei ministri erano legate e che la Presidenza del Consiglio era al Viminale fino a uno dei governi Fanfani». Punto di vista definitivo, oltreché predittivo, e nient' affatto isolato. Ammaccata e rimpicciolita dalla forza degli eventi giudiziari, peraltro, la narrazione degli arcinemici intorno a una Lega estremista, al limite dell'euro-eversione come uno spaventapasseri piantato a Roma dagli Stati canaglia di Visegrad, in queste ore sta subendo un ulteriore scossone grazie alla strategia comunicativa della coppia Salvini-Giorgetti, evidentemente più affiatata di quanto loro stessi vogliano farci credere.
Una nuova strategia - Dopo un intermittente testacoda mediatico sulla possibilità di una svolta moderata, se non addirittura entrista nei confronti della famiglia europopolare, due giorni fa, intervistato da Repubblica, il numero due della Lega aveva issato lo stendardo su una nuova linea difensiva: «Se passerà il proporzionale, è chiaro che la Lega dovrà avviare un movimento verso il centro, oppure correrà il rischio di essere annientata». Ieri, a colloquio con Annalisa Chirico, Salvini ha lanciato la bandiera oltre l'ostacolo spingendosi ben oltre: «La Lega è storicamente un partito di governo. Io non ho preclusioni di sorta: se l'Europa aiuta gli italiani a vivere meglio ben venga l'Europa. Non ho posizioni ideologiche: vediamo quando e con quali modalità arriveranno le risorse del Recovery Fund». Non basta: incalzato dalla giornalista sulla possibilità di una conversione all'ungherese, modello Orbán - «ora c'è Angela Merkel ma l'anno prossimo la Cdu va a congresso. Se cambiasse guida, lei potrebbe valutare l'ingresso nel Ppe? - il leader leghista ha infine alluso all'indicibile: «Abbiamo colloqui continui con diverse cancellerie europee, le assicuro che valuteremo a tempo debito». Se sia soltanto l'ennesima cosmesi tattica, e conoscendo Salvini potrebbe anche essere così, lo scopriremo presto. Resta rilevantissimo il fatto che tale affermazione venga incastonata in un processo di faticosa autocritica avviato dopo la vittoria mutilata delle recenti regionali. Siamo di fronte al prologo d'una Bolognina sovranista? Piano con i paragoni: Salvini non è Achille Occhetto (per sua fortuna) e soprattutto la Lega non ha un passato totalitario da farsi perdonare. E tuttavia un refolo di cultura sistemica e meno descamisada male non può procurare; come dimostra Giorgia Meloni, la quale osserva gli eventi dall'alto dell'euroleadership dei Conservatori appena conquistata sul campo.