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Gregoretti, a Catania l'ultimo esempio della mutazione politica subita dalla magistratura

Francesco Carella
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Mentre i riflettori restano puntati sul tribunale di Catania dove il Gup si riserva la decisione di rinviare o meno a giudizio l'ex titolare dell'Interno - dopo avere ascoltato il presidente del Consiglio, il ministro Lamorgese, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli - varrebbe la pena di aprire una riflessione, al di là della vicenda Salvini, sulla madre di tutte le anomalie del nostro sistema politico-istituzionale, ovvero sui rapporti sempre più alterati - ai limiti della legittimità costituzionale - fra sovranità - intesa come spazio entro cui si esplica la decisione politica - e giurisdizione. 

In tal senso, il terremoto che sta investendo il mondo giudiziario, con il caso Palamara, potrebbe essere la giusta occasione da cogliere per aggredire le ragioni che sottendono una tenzone che da decenni avvelena la sfera pubblica del nostro Paese. Purtroppo, a giudicare da come una parte della classe politica (Pd e pentastellati ) si è comportata nel caso Salvini-Gregoretti temiamo che una riconsiderazione critica sullo stato dei rapporti fra i due delicati poteri dello Stato verrà ancora una volta rimandata. Si preferisce continuare ad ignorare ciò che profeticamente lo storico Luciano Cafagna già nei mesi infuocati di Tangentopoli, nel '92-'93, indica come una «grande slavina destinata a travolgere l'intera attività politica nazionale allontanandola progressivamente dallo spirito e dalle procedure di una democrazia liberale». 

 

Sarà difficile per coloro che si accingeranno a scrivere la storia italiana degli ultimi decenni evitare di occuparsi nel primo capitolo di una particolare coincidenza: la magistratura italiana viene investita da una vera e propria mutazione genetica via via che nei propri ranghi giunge la generazione formatasi nei furori del '68 e, pertanto, ideologicamente convinta della necessità di espandere - per fini politici - il perimetro dell'azione giurisdizionale. Talché da funzionario deputato ad applicare le leggi, la figura del magistrato si trasforma in «guardiano dell'etica e della legalità». Va da sé che un tale cambiamento non sia avvenuto solo in forza di una robusta invasione di campo da parte di nuovi e giovani magistrati. La ragione fondamentale di quanto accaduto risiede nella fragilità della classe politica, che, per opportunismo o per semplice vigliaccheria, non è stata in grado di difendere la propria sovranità e di riportare in capo al "Principe" il legittimo scettro del comando. 

 

Del resto, come ben sanno i sociologi che si occupano di organizzazioni complesse non è infrequente che un organo burocratico - la magistratura lo è - abbia la tentazione d'invadere il campo altrui nel momento in cui avverte la debolezza degli altri soggetti pubblici o s' accorge di potere contare sulla complicità di una parte di essi. Ed è precisamente ciò che è alla base dell'anomalia italiana. Uscirne è impresa che richiede un grande coraggio politico, qualità che una buona fetta della nostra classe politica dimostra di non possedere. Anzi, una parte di essa, di formazione giustizialista, contribuisce ancora oggi con sfacciato opportunismo - la vicenda Salvini ne è un esempio - a rafforzare quel che gli studiosi chiamano «processo di politicizzazione dell'attività giudiziaria». 

In un contesto siffatto è più che legittimo avanzare il sospetto che un cardine dello Stato liberaldemocratico, ossia l'uguale applicazione del diritto senza riferimento alla parte politica, sia destinato in Italia a funzionare a fase alterna. La speranza, per dirla in metafora, è che possa ancora esserci un «giudice a Berlino».

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