Nino Spirlì, Filippo Facci: se neanche un gay è libero di usare la parola "fro***"
La madre di un bambino della scuola privata Faes (Milano) ieri ha fatto un casino perché in una vecchia canzoncina (forse «Il pianto di Zambo») c'era la terribile espressione «povero negretto».Ma non appartiene, questa madre, a nessuna «lobby del politically correct»: è solo conformista. Probabilmente non esistono, le «lobby del politically correct»: è appunto conformismo di maniera, caricatura del progressismo a cui una parte della sinistra e del centro (facciamo centrosinistra, anzi, sinistracentro) si ossequiano secondo autentiche mode. Sta di fatto che anche il signor Nino Spirlì in ogni caso non ne fa parte. Principalmente perché stiamo parlando di un signore che è di centrodestra, assessore della Regione Calabria.
Poi perché è amico di Matteo Salvini, ma soprattutto perché dice, nel suo linguaggio comune, «negro», «frocio», «ricchione» e «zingaro». Dunque? Dov' è la novità? La novità è che secondo gli stessi canoni del «politically correct» il signor Spirlì è particolarmente patentato per esprimersi: perché non è negro, non è zingaro - per adottarne il linguaggio - ma è frocio e ricchione, questo sì, oltre ad avere la delega regionale per la Cultura. Ecco quindi un caso di scuola: sarebbe piuttosto dura sottoporre Spirlì al consueto processo alle intenzioni riservato a chiunque rifiuti la continua sterilizzazione del linguaggio.
Ergo, ieri, partecipando a uno dei contro-eventi organizzati dalla Lega in sostegno politico a Salvini (indagato a Catania per sequestro di persona per il caso della nave Gregoretti), Spirlì ha detto: «Ci stanno cancellando le parole di bocca, come se utilizzando la parola zingaro volessimo dare a priori un giudizio negativo; negro è la stessa cosa, per poter dire negro io parlo calabrese e dico "mamma passa u nigru", e sapendo che in dialetto calabrese "u nigru" è "u nigru" e non c'è altro modo per dirlo, nessuno mi può dire che io, come minoranza calabrese, non possa utilizzare il termine che meglio riconosco. Così come nessuno può venirmi a dire che non posso utilizzare la parola ricchione perché omofoba: io lo dico, e guai a chi me lo vuole impedire. Per cui dirò negro, e frocio, fino all'ultimo dei miei giorni».
USI ANGLOSASSONI
E andrebbe anche bene: se fosse, la morale, che ciascuno di noi parla come gli pare. E se nessuno, d'un tratto, non facesse l'offeso per espressioni che un tempo non lo offendevano. Peccato che sia esattamente quello che succede in Italia, in accoglienza di consuetudini anglosassoni che anticipano gli orientamenti che l'Occidente di retroguardia (noi, per esempio) scopre con puntuale ritardo. In Italia ci va ancora bene, perché dire «negro» o «ricchione» in genere non produce - non ancora - conseguenze tipo licenziamenti o allontanamenti dai luoghi di lavoro: da noi, se va male, ti cacciano da qualche social network o ti arriva un esposto dell'Ordine dei Giornalisti. Altrove è molto peggio. Volete un altro caso di scuola? Nell'ottobre dell'anno scorso, in una scuola del Wisconsin, una guardia giurata «negra» di 48 anni è stata licenziata perché, nel dire a uno studente negro di non usare la parola «negro», ha pronunciato la parola «negro». Rileggete, se necessario; rivolto a uno studente ribelle che lo insultava e lo chiamava «negro», la guardia ha risposto «non chiamarmi negro» per altrettante volte. Diventò un piccolo caso nazionale e vi evitiamo gli strascichi.
RITARDO CULTURALE
Torniamo a noi involuti, noi che abbiamo ancora il problema di spiegare - chessò - a un ghanese che «negro» un tempo fu una bella e normale parola, ma che poi è scaduta ed è diventata nero (black) che poi è diventata afroasiatico o afroamericano (sette sillabe) prima di acquietarsi sul demenziale extracomunitario o immigrato di colore, espressione che peraltro ai negri non piace. Qualcuno di noi, impunito, continua a scrivere negro negli articoli e addirittura a farci dei titoli di giornale. Nella maggioranza dei vocabolari, come detto, la voce riporta: «Chi appartiene alle diverse razze del ceppo negride, originarie del continente africano». L'altra mattina in edicola vendevano le celeberrime carte «Dal Negro» e le canzoncine per bambini con espressioni scorrette (ma anche per i grandi: riascoltate «Negro» di Marcella Bella del 1975 o la celeberrima «I watussi») non sono state ancora bruciate in piazza.
Ma noi siamo in ritardo culturale, con poca o nessuna voglia - nel nostro caso - di accelerare. Come visto, abbiamo addirittura assessori alla Cultura che sono omosessuali e però dicono «frocio» e «ricchione», facendone una battaglia culturale che non avrebbe senso se altri non facessero la loro, stupidissima: «Se esistono le ere - ha detto ieri Spirlì, - questa è l'era della grande menzogna... hanno fatto una lobby delle lobbies: quella a cui avrei dovuto appartenere io, per esempio, è una delle peggiori, non c'è cosa più brutta della lobby frocia, quella che ti dice che non devi dire quella parola, non devi avere quell'atteggiamento». Il resto ci interessa poco, perché il fatto che Spirlì sia contrario ai matrimoni gay è tutto un altro discorso, al pari della sua fede cattolica. Insomma, fare una crociata sulle parole e offendere Nino Spirlì sembra complicato. Potete sempre ripiegare sul fatto che è terrone, se davvero vi sono rimaste solo le parole.