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Magistratura, la toga ammette: "C'è chi pensa di avere la missione di giudicare la politica e si sente eticamente superiore"

Fausto Carioti
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I magistrati, con la loro «superiorità etica», hanno tolto il potere al popolo italiano e ai suoi eletti. A dirlo è il procuratore aggiunto del tribunale di Napoli Nord Domenico Airoma, uno dei pochi che ha il coraggio di denunciare le degenerazioni della propria corporazione. E se le istituzioni non avessero paura a leggere il referto medico, chi può e deve - il guardasigilli, il parlamento, il Csm - farebbe tesoro della diagnosi e cercherebbe una terapia, anziché continuare a fingere che l'organismo sia sano. Airoma è vicepresidente del centro studi intestato a Rosario Livatino, magistrato cattolico ucciso dalla mafia nel 1990, all'età di 38 anni.

 

Sono stati appena pubblicati gli atti del convegno annuale di questa associazione di giuristi, curati dal consigliere della Cassazione Alfredo Mantovano, e in quelle cento pagine spicca proprio l'atto di accusa di Airoma. La sua frase chiave è la stessa che dà il titolo al volume: la giurisdizione ormai agisce «In vece del popolo italiano». L'imputazione parte dalla convinzione per cui «le correnti non sono un dato di natura, inscindibilmente connesse alla funzione del magistrato», e dal ruolo svolto da Magistratura democratica, il gruppo organizzato di toghe di sinistra che sin dalla nascita, nel 1964, ha usato l'Anm «come la leva indispensabile per la compiuta realizzazione della strategia gramsciana nell'ambito della giurisdizione».

CARRO ARMATO
Il rapporto paritario con la politica dura sino a Tangentopoli, quando la magistratura assume un ruolo preponderante: «Non si tratta più», nota Airoma, «di un giudice che fa politica (seppur sotto l'ombrello del richiamo alla costituzione materiale), ma di un giudice che ritiene di essere investito della missione di giudicare la politica stessa e non solo gli atti dei politici, se di rilievo penale». Rende bene la metafora: «I magistrati erano stati fatti salire sul carro armato e da quel carro armato non intendevano scendere più». Da allora è stato un crescendo. La giurisdizione si è proclamata «supremo potere con connotazioni di superiorità etica». E questo mentre i magistrati hanno adottato i vizi dei politici, tanto che le loro correnti «si presentano sempre più come compagnie di assicurazione e di sostegno nella scalata ad incarichi di vertice», come il caso Palamara ha dimostrato di recente.

Ma la percezione che la magistratura ha di sé non è quella di una categoria rovinata dal carrierismo e dalle consorterie. Tutt'altro. E molti suoi esponenti si arrogano il progetto di far avanzare quei «nuovi diritti» che vanno «ben al di là del tessuto costituzionale, percepito oramai come superato», e che trovano fondamento nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Prende piede la teoria secondo cui «le questioni attinenti in particolare al bio-diritto non possano essere affidate alle mutevoli maggioranze parlamentari, ma vadano attribuite a chi è capace di assecondare la nuova corrente antropologica». Ossia, i magistrati progressisti e illuminati. Perché ciò sia possibile è necessario che rispetto alle fonti, cioè alle leggi, divenga predominante la «interpretazione» del diritto. «Con tutto quel che ne consegue», denuncia Airoma, «sulla funzione della giurisdizione, che viene sempre più intesa come esercitata non "in nome del popolo italiano", ma "in vece del popolo italiano"». La vera questione morale della magistratura, insomma, al di là delle faide tra le correnti, è che essa è «sempre più il vero detentore del potere nell'epoca del politicamente corretto».

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